P.D. JAMES

UNA NOTTE DI LUNA PER L'ISPETTORE DALGLIESH

(Devices And Desires, 1989)

 

Nota dell'autrice

 

La vicenda è ambientata su un promontorio immaginario lungo la costa nord-orientale del Norfolk. Gli innamorati di questa remota e affascinante parte dell'East Anglia lo collocheranno tra Cromer e Great Yarmouth, ma non devono sperare di riconoscerne la topografia o di trovarvi la centrale nucleare di Larksoken, il villaggio di Lydsett o Larksoken Mill. Altri nomi di località sono autentici: ma questo è soltanto un trucco dell'autrice per dare credibilità a personaggi ed eventi fittizi. In questo romanzo sono reali soltanto il passato e il futuro. Il presente, come i protagonisti e le ambientazioni, esiste unicamente nella fantasia della scrittrice e dei suoi lettori.

 

LIBRO I

Da venerdì 16 settembre

a martedì 20 settembre

 

1

 

La quarta vittima del Fischiatore era anche la più giovane, Valerie Mitchell, quindici anni, otto mesi e quattro giorni, e morì perché aveva perso l'autobus delle nove e quaranta da Easthaven a Cobb's Marsh. Come sempre aveva aspettato fino all'ultimo minuto per uscire dalla discoteca, e quando si era strappata alle mani avide di Wayne, gridando a Shirl i loro progetti per la settimana successiva al di sopra dei rochi colpi della musica e se n'era andata, la pista era ancora una massa turbinante di corpi umani sotto i flash delle luci. L'ultima cosa che vide di Wayne fu la sua faccia seria, bizzarramente striata di rosso, giallo e azzurro dai faretti psichedelici. Senza fermarsi a cambiare le scarpe, prese la giacca dal piolo del guardaroba e si avviò di corsa per la strada, davanti alle vetrine buie dei negozi, diretta alla stazione dell'autobus, con l'ingombrante borsa a tracolla che le batteva contro le costole. Ma quando svoltò l'angolo della stazione vide con orrore che gli alti lampioni illuminavano soltanto un vuoto silenzioso. Tornò indietro di corsa appena in tempo per scorgere l'autobus già a metà della salita verso la collina. Aveva ancora una possibilità di farcela, purché l'autobus trovasse i semafori rossi, e cominciò a rincorrerlo disperatamente, intralciata dai fragili tacchi alti delle scarpe. Ma i semafori erano tutti verdi, e Valerie restò a guardare impotente e ansimante, piegata in due da un crampo improvviso, mentre l'autobus raggiungeva la sommità della collina e, come una nave illuminata, affondava e scompariva alla vista. «Oh, no!» e si sentì bruciare gli occhi di lacrime di rabbia e di sgomento.

Era la fine. In casa era suo padre a stabilire le leggi, e non c'erano mai possibilità di appello. Dopo lunghe suppliche e discussioni, aveva ottenuto il permesso per quell'uscita settimanale del venerdì sera alla discoteca gestita dal club giovanile della parrocchia, purché non mancasse mai di prendere l'autobus delle nove e quaranta. La lasciava davanti al Crown & Anchor di Cobb's Marsh, a cinquanta metri da casa. Alle dieci e un quarto suo padre cominciava ad aspettare che l'autobus passasse davanti alla finestra del salotto, dove lui e la moglie guardavano distrattamente la televisione, con le tende scostate. Qualunque tempo facesse, qualunque fosse il programma, suo padre si infilava allora la giacca e le andava incontro senza perderla di vista un momento. Da quando il Fischiatore del Norfolk aveva cominciato a colpire, aveva una scusa in più per esercitare sulla sua unica figlia quella blanda tirannia domestica che Valerie intuiva essere per lui in parte giustificabile e in parte semplicemente piacevole. L'accordo era stato raggiunto in fretta: «Tu comportati bene con me, figliola, e io mi comporterò bene con te». Valerie lo amava e lo temeva al contempo, ed era letteralmente terrorizzata dalla sua collera. Adesso ci sarebbe stata una di quelle tremende sfuriate in cui sapeva di non poter sperare nell'aiuto della madre. Sarebbe stata la fine dei suoi venerdì sera con Wayne, Shirl e tutta la banda. Già la prendevano in giro e la commiseravano perché si lasciava trattare come una bambina: adesso l'umiliazione sarebbe stata totale.

Il primo pensiero disperato fu di prendere un taxi per inseguire l'autobus, ma non sapeva dove fosse il parcheggio e comunque non aveva con sé abbastanza denaro. Poteva tornare in discoteca e vedere se, fra tutti, Wayne, Shirl e gli altri riuscivano a racimolare il necessario, ma Wayne era sempre al verde, Shirl era taccagna, e ora che li avesse convinti sarebbe stato troppo tardi.

Poi arrivò la salvezza. Il semaforo era tornato rosso e l'ulti ma di una fila di quattro macchine stava fermandosi: Valerie si trovava proprio di fronte al finestrino aperto di sinistra. A bordo c'erano due anziane signore. Si aggrappò al vetro abbassato e chiese: «Scusate, potete darmi un passaggio? Basta che sia nella direzione di Cobb's Marsh. Ho perso l'autobus... Per favore».

La sua disperata implorazione lasciò indifferente la guidatrice, che guardò davanti a sé, scosse la testa e innestò la marcia. L'amica, invece, dapprima esitò lanciandole un'occhiata, poi si sporse a togliere la sicura della portiera posteriore.

«Sali, presto. Noi andiamo a Holt. Possiamo lasciarti al crocevia.»

Valerie saltò a bordo e la macchina si mosse: almeno erano dirette dalla parte giusta. Le bastarono pochi secondi per elaborare un piano: dal crocevia di Holt c'erano meno di ottocento metri per arrivare al punto di congiunzione con il percorso dell'autobus; lo avrebbe preso alla fermata prima del Crown & Anchor, ce l'avrebbe tranquillamente fatta, perché l'autobus impiegava almeno venti minuti per fare il giro dei paesi.

Finalmente la donna la volante si decise a parlare. «Non dovresti chiedere passaggi in questo modo. Tua madre lo sa che sei uscita, e cosa fai in giro? Eh, ormai i genitori non riescono più a tenere i figli sotto controllo.»

Vecchia scema, pensò Valerie, cosa gliene frega di quello che faccio? Non avrebbe sopportato quella predica neppure dai suoi professori di scuola. Tuttavia represse l'impulso di rispondere male, come suggeriva la sua reazione di adolescente alle critiche degli adulti. Meglio tenersi buone le due signore. «Dovevo prendere l'autobus delle nove e quaranta» disse. «Mio padre mi ammazzerebbe se sapesse che ho chiesto un passaggio. Non l'avrei fatto, se lei fosse stata un uomo.»

«Lo spero proprio. E tuo padre ha ragione. Anche senza il Fischiatore, questi sono tempi pericolosi per le giovani ragazze. Dove abiti, di preciso?»

«A Cobb's Marsh. Ma ho gli zii a Holt: se mi lascia vicino all'incrocio ci penserà mio zio a portarmi fino a casa. Abitano proprio lì, non correrò nessun pericolo, davvero.»

La menzogna le venne facile, e con la stessa facilità fu accettata. Non parlarono più. Valerie rimase a osservare le due nuche dai capelli corti e grigi e le mani vecchie e chiazzate della guidatrice, strette sul volante. A giudicare dall'aspetto, erano sorelle. Fin dalla prima occhiata aveva notato la stessa testa squadrata, lo stesso mento forte, le stesse sopracciglia curve al di sopra di occhi ansiosi e infastiditi. Avevano senz'altro litigato, pensò. Avvertiva la tensione nell'aria. Fu un sollievo quando, al crocevia, la guidatrice accostò senza dire una parola e lei poté scendere. Mormorò un breve ringraziamento e rimase a guardare la macchina che spariva in lontananza. Le due anziane signore furono gli ultimi esseri umani a vederla viva. A parte un terzo.

Valerie si chinò a calzare le robuste scarpe che i suoi genitori insistevano a farle portare a scuola, felice di alleggerire così la borsa, e si incamminò dalla parte opposta dell'abitato, verso il punto in cui avrebbe aspettato l'autobus. La strada era stretta e buia, fiancheggiata a destra da un filare di alberi, nere sagome incollate contro il cielo stellato, e sulla sinistra, dove camminava, da una sottile frangia di cespugli, a tratti abbastanza fitti e vicini da ombreggiare ulteriormente il viottolo. Fino a quel momento, Valerie aveva provato solo un grande senso di sollievo: tutto sarebbe andato bene, avrebbe preso l'autobus. Ma ora, mentre camminava in uno strano silenzio dove i suoi passi risuonavano in maniera innaturale, un'ansia diversa e più insidiosa si impadronì di lei, provocandole i primi brividi di paura. E quando ne riconobbe il potere proditorio, la paura la dominò trasformandosi inesorabilmente in terrore.

Si stava avvicinando una macchina, un simbolo di salvezza e normalità a cui improvvisamente si sovrappose un nuovo senso di minaccia. Tutti sapevano che il Fischiatore doveva essere dotato di una macchina: altrimenti come avrebbe fatto a uccidere in località tanto distanti della regione, come avrebbe potuto fuggire dopo aver compiuto la sua opera mostruosa? Valerie indietreggiò riparandosi fra i cespugli, e la nuova paura si sostituì alla vecchia. Udì un rombo e per un attimo I catarifrangenti brillarono nel buio, mentre la macchina passava in una ventata. Valerie era di nuovo sola nell'oscurità e nel silenzio: ma era sola davvero? Il pensiero del Fischiatore si impossessò della sua mente, e le dicerie e le mezze verità si fusero in una realtà terrificante. Il Fischiatore strangolava le donne: finora ne aveva uccise tre. Poi tagliava loro i peli del pube e glieli cacciava in bocca, come la paglia che esce da un pupazzo del 5 novembre. A scuola i ragazzi ridevano di lui e fischiavano nel capannone delle biciclette come si diceva che lui fischiettasse sui cadaveri delle vittime. «Il Fischiatore ti ammazzerà» le gridavano. Poteva essere ovunque. Andava sempre a caccia di notte. In quel momento poteva anche trovarsi lì. Valerie provò l'impulso di buttarsi sulla terra soffice e odorosa, di tapparsi le orecchie e restare immobile fino all'alba. Ma riuscì a dominare il panico. Doveva arrivare al grande incrocio e prendere l'autobus. Si obbligò a uscire dall'ombra e a riprendere il suo quasi silenzioso cammino.

Avrebbe voluto mettersi a correre, ma riuscì a trattenersi. L'essere che se ne stava acquattato fra la vegetazione, uomo o belva che fosse, sentiva già l'odore della sua paura e attendeva che si abbandonasse al panico. Allora Valerie avrebbe udito lo schianto dei rami spezzati, il passo precipitoso, il respiro ansimante. Doveva continuare a camminare, svelta ma senza far rumore, tenendosi la borsa stretta contro il fianco, trattenendo il respiro, con gli occhi fissi davanti a sé. E mentre camminava, si mise a pregare: «Dio, ti prego, fa' che arrivi a casa sana e salva e non dirò più bugie, me ne andrò sempre puntuale. Aiutami a raggiungere l'incrocio. Fa' che l'autobus arrivi presto. Oh, Dio, ti prego, aiutami».

E poi, miracolosamente, la sua preghiera fu esaudita: a una trentina di metri davanti a sé, improvvisamente, vide una donna. Non si chiese come quella figura snella che procedeva lentamente fosse riuscita a materializzarsi dal nulla: la sua presenza le bastava. Quando si avvicinò affrettando il passo, scorse i lunghi capelli biondi sotto il berretto e una specie di impermeabile con la cintura. Ancora più rassicurante fu il cagnolino bianco e nero dalle zampe arcuate che trotterellava docilmente al fianco della ragazza. Potevano arrivare insieme alla fermata. Forse la ragazza avrebbe preso lo stesso autobus. Valerie provò il desiderio di gridare: «Arrivo, arrivo». Si mise a correre verso la salvezza e la protezione, come una bambina che si getta fra le braccia della madre.

La donna si chinò e sganciò il guinzaglio del cane che, come se obbedisse a un ordine, sparì fra i cespugli. Poi si lanciò un'occhiata alle spalle e si fermò ad aspettare voltando la schiena a Valerie, con il guinzaglio a penzoloni fra le dita della mano destra. Per poco Valerie non le si buttò addosso. Poi, lentamente, la donna si girò. Fu un secondo di orrore totale, paralizzante. Scorse il volto pallido e teso che non era mai stato un viso di donna, il sorriso semplice, invitante, quasi di scusa, gli occhi sfolgoranti e spietati. Aprì la bocca per urlare, ma non riuscì a farlo: il terrore l'aveva già resa muta. Con un solo movimento, il cappio del guinzaglio le passò sopra la testa e venne tirato, e Valerie fu trascinata dalla strada nell'ombra dei cespugli. Si sentì precipitare attraverso il tempo e lo spazio, in un'eternità di orrore. Adesso la faccia accaldata era vicina alla sua, sprigionava un odore di alcol e di sudore, misto all'odore di un terrore grande come il suo. Alzò le braccia in un gesto impotente. Poi il cervello le esplose, la sofferenza nel petto crebbe come un grande fiore rosso e Valerie proruppe in un urlo silenzioso: «Mamma, mamma!». Poi, il terrore e la sofferenza scomparvero, inghiottiti dal buio misericordioso.

 

2

 

Quattro giorni dopo, l'ispettore Adam Dalgliesh di New Scotland Yard dettò l'ultima lettera alla segretaria, sgombrò la scrivania, chiuse a chiave il cassetto, regolò la combinazione dell'armadio di sicurezza e si preparò a partire per due settimane di vacanza sulla costa del Norfolk. Doveva andarci da un pezzo e non ne vedeva l'ora. Ma la vacanza non era del tutto terapeutica: nel Norfolk c'erano affari che richiedevano la sua presenza. Sua zia, la sua unica parente, era morta due mesi prima e gli aveva lasciato in eredità il proprio patrimonio e un mulino a vento ristrutturato a Larksoken, sulla costa nordorientale. Il patrimonio si era rivelato inaspettatamente cospicuo ed era stato fonte di alcuni dilemmi tuttora irrisolti. Il mulino, invece, era un lascito meno oneroso, ma anche quello poneva qualche problema. Dalgliesh pensava che avrebbe dovuto viverci una settimana o due prima di decidere se tenerlo per le vacanze, venderlo oppure cederlo per un prezzo simbolico al Norfolk Windmill Trust, sempre pronto a restaurare vecchi mulini a vento. E poi c'erano le carte di famiglia e i libri della zia, in particolare la ricca biblioteca di testi ornitologici, da esaminare e dividere e assegnare a qualche altra destinazione. Erano compiti piacevoli. Fin da ragazzo, le vacanze prive di uno scopo utile non gli erano mai state gradite. Non sapeva da quale infantile e immaginario senso di responsabilità fosse derivato quello strano masochismo che, nella mezza età, si era riproposto con forza sempre crescente. Ma era comunque lieto che ci fosse qualcosa da fare nel Norfolk, anche perché sapeva che quel viaggio era un po' una fuga. Dopo quattro anni di silenzio, il suo nuovo libro, Un caso da risolvere e altre poesie, era stato finalmente pubblicato, ottenendo un'approvazione inaspettata e gratificante da parte della critica e un grande interesse da parte del pubblico che, cosa meno sorprendente, gli era difficile accettare. Dopo la soluzione dei suoi più famosi casi di omicidio, l'ufficio stampa della polizia di Londra si era dato da fare per proteggerlo dall'eccessiva pubblicità. Doveva invece abituarsi alle esigenze un po' diverse del suo editore, ed era sinceramente lieto di avere un pretesto per sottrarvisi, almeno per un paio di settimane.

Aveva già salutato l'ispettrice Kate Miskin, in quel momento fuori ufficio, impegnata in un caso. L'ispettore capo Massingham era stato assegnato all'Intermediate Command Course presso la scuola di polizia di Bramshill, un altro passo nei suoi progetti di carriera gallonata, e Kate aveva preso temporaneamente il suo posto come vice di Dalgliesh al comando della Squadra Speciale. Dalgliesh entrò nell'ufficio di Kate per lasciarle un biglietto con il proprio recapito. Come sempre trovò la stanza incredibilmente ordinata, piena di indizi di efficienza e tuttavia alquanto femminile, con quell'unico quadro a ravvivarne le pareti: un olio astratto di Kate, un vorticante studio di marroni esaltati da una pennellata di verde acido che Dalgliesh apprezzava di più a ogni occhiata. Sul piano sgombro della scrivania campeggiava un piccolo vaso di cristallo con un mazzo di fresie. Il profumo, dapprima quasi sfuggente, lo assalì all'improvviso, rafforzando in lui la solita, strana sensazione che l'ufficio traboccasse della presenza di Kate più quando era vuoto di quando lei era lì seduta a lavorare. Appoggiò il biglietto al centro del foglio di carta assorbente e sorrise mentre richiudeva la porta con una gentilezza quasi eccessiva. Ora non doveva fare altro che affacciarsi nell'ufficio del capo a scambiare le ultime due parole, per poi filare dritto all'ascensore.

Le porte stavano già richiudendosi quando udì un passo precipitoso accompagnato da un gridolino ridanciano, e Manny Cumming schizzò dentro evitando per un soffio la stretta delle porte d'acciaio. Come sempre, pareva essere trascinato da un turbine di energia quasi schiacciante, troppa per restare contenuta fra le quattro pareti dell'ascensore. Manny brandiva una grossa busta marrone. «Sono contento di averti trovato, Adam. Stai scappando nel Norfolk, vero? Se l'anticrimine becca il Fischiatore, dagli un'occhiata per conto mio, ti prego, e controlla se per caso non è il nostro uomo di Battersea.»

«Lo strangolatore di Battersea? Ti pare possibile, dati i tempi e la tecnica? A me non sembra molto probabile.»

«Infatti è molto improbabile, ma lo Zio non è mai contento se noi prima non abbiamo cercato ogni pelo nell'uovo e ogni ago nel pagliaio. Ho messo insieme qualche dettaglio e l'identikit, non si sa mai. E poi abbiamo avuto un paio di avvistamenti. Ho detto a Rickards che saresti capitato da lui, ricordi Terry Rickards?»

«Certo.»

«Adesso è ispettore capo, credo. Gli è andata bene, nel Norfolk. Meglio che se fosse rimasto con noi. E mi dicono che si è sposato, quindi potrebbe essersi addolcito un po'. Un maledetto testardo.»

«Farò un salto da lui» disse Dalgliesh, «ma grazie a Dio non per lavorare con la sua squadra. E se pescano il Fischiatore, perché dovrei evitarti una scappata in campagna?»

«Odio la campagna, soprattutto se è piatta. Pensa che farai risparmiare quattrini ai contribuenti. Comunque no, verrò, se proprio varrà la pena di vederlo di persona. Sei molto gentile, Adam. Buone vacanze.»

Soltanto Cumming poteva avere una simile faccia tosta. In fondo però non era una richiesta irragionevole, fra due colleghi separati solo da una differenza di pochi mesi di anzianità, e poi aveva sempre predicato la collaborazione e l'uso razionale delle risorse. Ed era improbabile che la vacanza fosse interrotta dalla necessità di dare un'occhiata al Fischiatore, l'assassino del Norfolk, vivo o morto che fosse. Agiva ormai da quindici mesi e la sua ultima vittima, Valerie Mitchell, era la quarta. Erano casi difficili, frustranti, perché spesso la soluzione dipendeva da un colpo di fortuna più che da indagini approfondite. Mentre scendeva nel parcheggio sotterraneo diede un'occhiata all'orologio: fra tre quarti d'ora sarebbe partito. Ma prima doveva passare dall'editore.

 

3

 

L'ascensore della Herne & Illingworth di Bedford Square era antico quasi quanto l'edificio stesso, un monumento sia all'ostinata fedeltà della ditta a un'eleganza ormai superata, sia a un'inefficienza leggermente eccentrica dietro la quale andava prendendo forma una politica energica. Mentre saliva sballottato da sconcertanti scossoni, Dalgliesh pensò che il successo, per quanto assai più gradevole del fallimento, aveva anche i suoi svantaggi. E uno di questi svantaggi lo attendeva nella persona di Bill Costello, direttore della pubblicità, nel soffocante ufficio del quarto piano.

Gli alti e bassi nella sua fortuna di poeta avevano coinciso con vari cambiamenti in seno alla casa editrice. La Herne & Illingworth esisteva ancora nel senso che quelli erano i nomi stampati sulle copertine dei libri, sotto l'antico ed elegante stemma; adesso, però, faceva parte di una multinazionale che solo di recente aveva aggiunto i libri alla commercializzazione di cibi in scatola, zucchero e prodotti tessili. Per otto milioni e mezzo di sterline, il vecchio Sebastian Herne aveva venduto una delle poche case editrici individuali rimaste a Londra e si era affrettato a sposare una graziosa assistente pubblicitaria che aspettava solo la conclusione dell'accordo prima di abbandonare, con qualche remora ma anche con una prudente considerazione per il proprio futuro, lo status di amante per quello di moglie. Herne era morto dopo tre mesi, e la sua fine aveva suscitato molti commenti scurrili, ma pochi rimpianti. Per tutta la vita Sebastian Herne era stato un uomo prudente e convenzionale che aveva riservato all'editoria la propria eccentricità, immaginazione e disponibilità a correre qualche rischio. Per trent'anni aveva vissuto da marito fedele e privo di fantasia, e Dalgliesh era convinto che se un uomo riusciva a trascorrere settant'anni in una convenzionalità quasi esente da colpe, forse era proprio ciò che la sua natura imponeva. Herne non era morto tanto per eccessi sessuali, anche ammettendo che si trattasse di cosa scientificamente credibile come piacerebbe ai puritani, quanto in seguito a un'irreparabile esposizione al contagio della morale sessuale.

La nuova gestione editoriale promuoveva attivamente i poeti, forse perché considerava il catalogo di poesia un prezioso contrappeso alla volgarità e alla pornografia soft dei bestseller, peraltro confezionati con cura e distinzione, quasi che l'eleganza della copertina e la qualità della stampa potessero elevare al grado di letteratura simili banalità commerciali. Bill Costello, da un anno direttore della pubblicità, non capiva perché la Faber & Faber dovesse avere sempre il monopolio quando si trattava di pubblicizzare fantasiosamente la poesia, soprattutto considerando che anche lui sapeva farlo molto bene, nonostante corresse voce che non aveva mai letto un solo verso moderno. Il suo unico interesse poetico era, a quanto risaputo, la presidenza del McGonagall Club, i cui soci si riunivano il primo martedì di ogni mese in un pub della City per gustare il famoso pasticcio di fegato cucinato dalla proprietaria, bere abbondantemente e recitare le opere più ridicole dei peggiori poeti inglesi di tutti i tempi. Un collega poeta aveva fornito a Dalgliesh una spiegazione: «Quel poveretto deve leggere tanti versi moderni assolutamente incomprensibili, non c'è da meravigliarsi se ogni tanto sente il bisogno di una dose di scemenze più abbordabili. È come il marito fedele che di tanto in tanto trova uno sfogo terapeutico nei bordelli». Dalgliesh pensava che fosse una teoria ingegnosa ma inverosimile. Niente lasciava supporre che Costello leggesse davvero i versi che con tanta abilità promuoveva. Quel giorno accolse il suo più recente candidato alla gloria dei media con un miscuglio di caparbio ottimismo e di lieve apprensione, quasi sapesse di trovarsi di fronte una gatta da pelare.

La sua faccia minuta, malinconica e infantile contrastava stranamente con la sua figura rotonda. A quanto pareva, il problema principale di Costello era decidere se portare la cintura sopra o sotto la pancia: sopra, dicevano, era indice di ottimismo, sotto, un sintomo di depressione. Quel giorno era appena sopra i genitali e proclamava una dose di pessimismo che la successiva conversazione contribuì ulteriormente a giustificare.

Alla fine, Dalgliesh dichiarò con decisione: «No, Bill, non ho nessuna intenzione di paracadutarmi nello stadio di Wembley con il libro in una mano e un microfono nell'altra. E non intendo far concorrenza all'annunciatore ferroviario gridando i miei versi ai pendolari della stazione di Waterloo. Quei poveri diavoli pensano solo a non perdere il treno».

«Lo hanno già fatto, è un vecchio trucco. E quella storia di Wembley è una sciocchezza, non so proprio come ti sia venuta in mente. No, senti, la mia proposta è davvero eccezionale. Ne ho parlato a Colin McKay, è assolutamente entusiasta: affitteremo un autobus rosso a due piani e faremo il giro del paese... be', per quanto è possibile farlo in dieci giorni. Dirò a Clare di mostrarti la bozza del programma.»

«Come una carovana in campagna elettorale: manifesti, slogan, altoparlanti, palloncini...» ribatté solennemente Dalgliesh.

«Ma, scusa, se non fai sapere alla gente del tuo arrivo, tanto vale non andare neanche.»

«Lo saprà, con Colin a bordo. Come conti di riuscire a farlo restare sobrio?»

«È un ottimo poeta, Adam, e ti ammira moltissimo.»

«Questo non significa che mi gradirebbe come compagno di viaggio. Come pensi di chiamarlo? Pellegrinaggio dei Poeti? Tocco di Chaucer? Versi su Ruote? Bus della Poesia? Questo, almeno, avrebbe il pregio della semplicità.»

«Qualcosa troveremo. Non mi dispiaceva Pellegrinaggio dei Poeti.»

«E quali sarebbero le tappe?»

«Municipi, scuole, pub, autogrill: dovunque ci sia un pubblico. È una prospettiva eccitante. Pensavamo di noleggiare un treno, ma l'autobus assicura maggiore flessibilità.»

«E costa meno.»

Costello non raccolse la frecciata. «Al secondo piano i poeti, al primo bevande e rinfreschi. Letture dalla piattaforma. Pubblicità nazionale, radio e TV. Partiamo dall'Embankment. Abbiamo una chance con Channel Four e, naturalmente, Kaleidoscope. Contiamo su di te, Adam.»

«No» ripeté Dalgliesh con rinnovata fermezza. «Neppure per i palloncini.»

«Santo Dio, Adam, tu scrivi quella roba e immagino che vorrai che la gente la legga... o almeno che la compri. Il pubblico ha dimostrato un grande interesse per te, soprattutto dopo l'ultimo caso dell'omicidio Berowne.»

«Al pubblico interessa un poeta che cattura gli assassini o un poliziotto che scrive poesie, nient'altro.»

«E che importanza ha, se l'interesse alla fine c'è? E non dirmi che al commissario non farebbe piacere.»

«D'accordo, non lo dico, ma a lui non farebbe piacere.»

Dopotutto, non c'era niente di nuovo da aggiungere. Aveva già udito quelle domande innumerevoli volte e aveva fatto del suo meglio per rispondere con sincerità, anche se con scarso entusiasmo. «Perché un poeta sensibile come lei passa il tempo a dare la caccia agli assassini?» «Per lei cos'è più importante: la poesia o la polizia?» «Essere un investigatore è un intralcio o un aiuto?» «Qual è stato il suo caso più interessante? Non ha mai pensato di scrivere una poesia sull'argomento?» «Le poesie d'amore... La donna per cui le ha scritte è viva o morta?» Dalgliesh si domandava se Philip Larken si fosse mai sentito chiedere con tanta insistenza cosa provava a essere poeta e bibliotecario, o Roy Fuller come riusciva a conciliare la poesia con il diritto.

«Sono domande prevedibili» disse. «Sarebbe meglio per tutti se registrassi le risposte, così potresti addirittura trasmetterle dall'autobus.»

«Non sarebbe la stessa cosa. Vogliono sentire te personalmente. Da come ti comporti, si direbbe che non vuoi essere letto.»

Voleva essere letto? Certamente desiderava che qualcuno lo leggesse, una persona in particolare... Sì, voleva che quella persona leggesse le sue poesie e le approvasse. Era umiliante ma vero. In quanto a tutti gli altri, be', forse la verità era che desiderava che la gente leggesse i suoi libri senza essere costretta a comprarli, uno scrupolo che la Herne & Illingworth di sicuro non condivideva. Si accorse che Bill lo stava guardando con occhi ansiosi e imploranti, come un ragazzino che vede un piatto di dolci sparirgli di colpo da sotto il naso. La riluttanza a collaborare gli sembrava esemplificativa di tante cose che detestava in primis in se stesso. Innanzitutto era illogico voler essere pubblicato senza però curarsi troppo del fatto che i lettori lo comprassero o meno; e d'altronde trovare disgustose le ostentazioni di fama non significava essere privi di vanità, ma forse riuscire soltanto a controllarla meglio, e comunque in lui la cosa assumeva una forma più sfuggente: dopotutto aveva un lavoro, una pensione sicura, e adesso anche la considerevole eredità della zia. Non doveva preoccuparsi. Si considerava irragionevolmente privilegiato in confronto a Colin McKay, che con ogni probabilità (e chi poteva dargli torto?) lo riteneva un dilettante ipersensibile e anche un tantino snob.

Dalgliesh provò sollievo quando la porta si aprì ed entrò Nora Gurney, caporedattrice della sezione dei libri di cucina. Come sempre gli ricordò un insetto intelligente, e l'impressione era rafforzata dai bulbi oculari sporgenti e luminosi riparati dietro le spesse lenti rotonde, dall'abito marrone e dalle scarpe piatte e appuntite. Non era cambiata affatto dal loro primo incontro.

Nora era diventata una potenza nell'editoria inglese grazie all'espediente della longevità (nessuno ricordava quando fosse entrata nella Herne & Illingworth) e alla ferma convinzione che il potere le fosse comunque dovuto. Probabilmente avrebbe continuato a esercitarlo anche sotto la nuova amministrazione. Dalgliesh l'aveva vista l'ultima volta tre mesi prima, a uno dei periodici ricevimenti offerti senza una ragione particolare, se non forse allo scopo di dimostrare agli autori, con l'usuale abbondanza di vino e tartine, che la casa editrice era ancora in affari e si manteneva fondamentalmente simpatica e vivace come un tempo. L'elenco degli invitati comprendeva innanzitutto gli scrittori più prestigiosi dei filoni principali, un sistema che aveva accentuato l'atmosfera di disagio generale: i poeti avevano alzato un po' troppo il gomito ed erano diventati lacrimosi o sentimentali a seconda dell'inclinazione del carattere, i romanzieri si erano ritirati in un angolo come un branco di cani riottosi dopo l'ordine di non mordere, gli accademici avevano ignorato anfitrioni e ospiti e per tutto il tempo avevano discusso animatamente fra loro, mentre gli esperti di cucina avevano ostentatamente riappoggiato sulla prima superficie a portata di mano le tartine appena assaggiate, sfoggiando espressioni di disgusto, addolorata sorpresa o scarso interesse. Dalgliesh era stato bloccato in un angolo da Nora Gurney, ansiosa di esporgli una sua teoria: visto che ogni serie di impronte digitali era unica, non era possibile rilevare le impronte a tutti, ma proprio a tutti, per immagazzinarle in un computer e cercare di scoprire se certe combinazioni di linee e anelli indicavano tendenze criminali? In quel modo si sarebbe potuta prevenire la criminalità diffusa, no? Dalgliesh aveva rimarcato che, data l'universalità delle tendenze criminali, almeno a giudicare da come e dove i presenti avevano scelto di parcheggiare la macchina, non era possibile gestire dati di una natura simile, e questo lasciando per un attimo da parte i problemi logistici ed etici legati alle operazioni di rilevamento delle impronte stesse e il fatto scoraggiante che il crimine, ammettendo la validità del paragone con le malattie, era come queste ultime più facile da diagnosticare che da curare. Il sollievo era arrivato quando una formidabile scrittrice di romanzi, gagliardamente fasciata da un tailleur di cretonne che la faceva assomigliare a una poltrona ambulante, l'aveva trascinato via estraendo dalla borsetta un plico di contravvenzioni per sosta vietata e gli aveva chiesto in tono irritato cosa intendesse fare per sistemare la faccenda.

L'elenco delle pubblicazioni di arte culinaria della Herne & Illingworth era limitato ma di notevole prestigio; i suoi migliori autori si erano fatti una solida reputazione di credibilità, originalità e abilità nello scrivere. Nora Gurney amava il suo lavoro e gli autori con cui aveva a che fare, e considerava narrativa e poesia come aggiunte fastidiose, benché necessarie, all'attività fondamentale della casa editrice, che consisteva nel coccolare e pubblicare i suoi prediletti. A riprova della salda convinzione inglese, piuttosto diffusa nelle sfere più elevate anche se meno utili dell'attività umana, che il successo contrasta fatalmente con la competenza, di lei si diceva che fosse una cuoca molto mediocre. Dalgliesh non trovò affatto sorprendente che Nora considerasse come del tutto fortuito il suo arrivo, giudicando invece un privilegio quasi sacro il compito di consegnare da parte sua alcune bozze ad Alice Mair. Disse: «Immagino che l'abbiano chiamata perché dia una mano a prendere il Fischiatore».

«No, per fortuna il compito spetta all'anticrimine del Norfolk. Gli appelli a Scotland Yard avvengono più spesso nei romanzi che nella realtà.»

«Comunque, è una fortuna che lei vada nel Norfolk. Non mi fiderei mai a spedire le bozze per posta. Ma sua zia non viveva nel Suffolk? Comunque ho saputo che è morta, vero?»

«Viveva nel Suffolk fino a cinque anni fa, poi si è trasferita nel Norfolk. E, sì, è morta.»

«Oh, be', tra Suffolk e Norfolk non c'è poi questa grande differenza. Però mi dispiace che non ci sia più.» Per un momento Nora Gurney parve riflettere sulla caducità della vita umana e confrontare mentalmente le due contee, per poi bocciarle entrambe; quindi riprese: «Se la signorina Mair non è in casa, non lasci il pacco alla porta, la prego. So che in campagna la gente è molto più affidabile, ma sarebbe un disastro se le bozze andassero perdute. Se Alice non c'è, può darsi che ci sia il fratello, il dottor Alex Mair. È il direttore della centrale nucleare di Larksoken. Ma forse, pensandoci bene, sarà il caso che non le consegni neppure a lui. A volte gli uomini sono così inaffidabili...».

Dalgliesh provò la tentazione di farle notare che, magari, uno dei più illustri fisici del Paese, nonché responsabile di una centrale atomica e candidato, stando ai giornali, alla carica di alto commissario per l'energia nucleare, era abbastanza degno di fiducia perché gli si potesse affidare un pacco di bozze. «Se la signorina Mair è in casa» disse invece, «glielo consegnerò personalmente. Altrimenti lo terrò.»

«Le ho telefonato per avvertirla che è in viaggio, quindi l'aspetterà. Ho scritto l'indirizzo molto chiaramente: Martyr's Cottage. Spero riuscirà ad arrivarci.»

«Sa leggere le carte geografiche, sì. È un poliziotto, Nora, non dimenticarlo» intervenne Costello in tono acido.

Dalgliesh disse che conosceva il Martyr's Cottage e superficialmente anche Alex Mair, ma non la sorella. Sua zia aveva condotto un'esistenza assai tranquilla, ma in quella zona remota era inevitabile che i vicini si conoscessero; e anche se all'epoca Alice Mair si trovava in viaggio, dopo la morte della signorina Dalgliesh, il fratello si era recato in visita di condoglianze al mulino.

Prese il pacco, sorprendentemente grosso e pesante e sigillato con un'insormontabile griglia di nastro adesivo, quindi scese nel parcheggio sotterraneo della casa editrice, dove lo aspettava la sua Jaguar.

 

4

 

Quando riuscì a districarsi dai tentacoli della periferia orientale, Dalgliesh poté finalmente premere il pedale dell'acceleratore: alle tre stava già attraversando il villaggio di Lydsett. Svoltò a destra abbandonando la strada costiera e si immise su quella che era poco più di una pista asfaltata, fiancheggiata da fossi pieni d'acqua e dalle canne che ondeggiavano al vento. Per la prima volta ebbe l'impressione di sentire l'odore del Mare del Nord, un odore salmastro, intenso ma illusorio, che evocava nostalgiche memorie delle vacanze dell'infanzia, le passeggiate solitarie di un adolescente alle prese con le sue prime poesie, l'alta figura della zia che, al suo fianco, con il binocolo appeso al collo, si avviava verso le zone frequentate dagli uccelli. E lì, a sbarrare la strada, c'era il vecchio cancello. La sua presenza lo sorprendeva ogni volta, poiché privo di uno scopo evidente, se non isolare forse in maniera simbolica l'intero promontorio e imporre ai viaggiatori una pausa in cui chiedersi se davvero intendevano continuare per quella strada. Il cancello si spalancò al suo tocco; ma come sempre, richiuderlo fu più difficile. Dovette sollevarlo un po' e infilare l'anello di filo metallico sopra il palo, accompagnato dalla familiare sensazione di aver così voltato le spalle al mondo quotidiano e di essere entrato in una zona che sarebbe sempre rimasta un territorio a lui alieno.

Ora Dalgliesh stava viaggiando attraverso il promontorio, in direzione della frangia di pini che lambiva quel pezzo di costa del Mare del Nord. L'unico edificio alla sua sinistra era la Vecchia Canonica vittoriana, una costruzione squadrata in mattoni rossi che strideva con la siepe di allori e rododendri. Sulla destra il terreno si inclinava dolcemente verso le scogliere meridionali, e Dalgliesh riusciva a intravedere la buia imboccatura di una casamatta di cemento rimasta lì intatta dalla guerra, apparentemente indistruttibile come le enormi masse delle fortificazioni semisommerse nella sabbia e frustate dalle maree. A nord, gli archi spezzati e i moncherini delle colonne dell'antica abbazia benedettina brillavano dorati nel sole del pomeriggio contro l'azzurro del mare increspato. Superato un piccolo dosso scorse la pala più alta del mulino e ancora oltre, stagliata contro il cielo, la grande mole grigia della centrale nucleare di Larksoken. La strada che deviava verso sinistra portava alla centrale, ma Dalgliesh sapeva che veniva usata raramente, perché il traffico normale e i mezzi più pesanti transitavano lungo la nuova via d'accesso, a nord. Il promontorio era deserto e quasi brullo; i pochi alberi deformati dal vento lottavano per conservare la propria presa nel terreno. Dalgliesh pensò che il promontorio aveva l'aspetto devastato e saccheggiato di un antico campo di battaglia: i cadaveri erano stati rimossi da lungo tempo, ma l'aria vibrava ancora degli spari di battaglie perdute, mentre la centrale torreggiava come un grandioso monumento moderno al milite ignoto.

Durante le precedenti visite a Larksoken, mentre lui e la zia scrutavano il paesaggio dalla stanzetta sotto il tetto del mulino, Dalgliesh aveva visto spesso il Martyr's Cottage steso ai suoi piedi. Tuttavia, non si era mai avvicinato e ora, puntando in quella direzione, pensò una volta di più che il termine "cottage" non gli si addiceva affatto. Si trattava di una casa a due piani a forma di elle, situata a est della strada, con i muri in parte di selce, in parte rinzaffati, e sul retro includeva un cortile di pietra di York dal quale si godeva una veduta ininterrotta su cinquanta metri di cespugli, fin giù alle dune erbose e al mare. Quando si fermò nessuno comparve, e mentre stava per suonare il campanello, lesse l'iscrizione di una lapide murata a destra della porta:

 

Qui sorgeva un tempo il cottage di Agnes Poley,

martire protestante,

bruciata a Ipswich il 15 agosto 1557 all'età di 32 anni.

Ecclesiaste, capitolo 3, versetto 15.

 

La lapide era priva di fregi, le lettere erano scolpite profondamente in una grafia elegante che ricordava Eric Gill; la zia aveva detto che era stata collocata lì dai precedenti proprietari, verso la fine degli anni '20, quando il cottage era stato ampliato. Uno dei vantaggi di avere un'istruzione religiosa è la capacità di identificare almeno i testi più noti delle scritture, e quello in particolare non richiese a Dalgliesh alcuno sforzo di memoria. Quando aveva nove anni e spesso marinava la scuola, una volta il direttore gli aveva imposto di copiare in bella scrittura tutto il terzo capitolo dell'Ecclesiaste; il vecchio Cumboil, sempre pratico, pensava che in quel modo si combinasse la punizione con la formazione letteraria e religiosa. Le parole, scritte dalla sua mano infantile, gli erano rimaste impresse nel ricordo. Una scelta interessante, pensò.

Ciò che è già fu; e ciò che sarà, è già; e Dio riconduce il già trascorso.

Dalgliesh suonò il campanello, e poco dopo Alice Mair venne ad aprirgli. Era una donna alta e bella, vestita con attenta e raffinata informalità: un maglione di cachemire nero, un foulard di seta al collo e calzoni color nocciola. L'avrebbe riconosciuta per la forte somiglianza con il fratello, anche se sembrava di qualche anno più anziana di lui. Dando per scontato che ognuno di loro sapesse chi era l'altro, la donna si scostò per farlo passare e disse: «È stato molto gentile, signor Dalgliesh. Purtroppo Nora Gurney è implacabile. Lei è diventato la vittima predestinata non appena Nora ha saputo che doveva venire nel Norfolk. Le dispiace portare le bozze in cucina?».

Aveva un viso aristocratico, con gli occhi distanti e profondamente incavati, le sopracciglia diritte, una bocca ben disegnata e un po' misteriosa e folti capelli brizzolati, annodati in uno chignon. Nelle foto pubblicitarie appariva bella, scostante, intellettuale e molto inglese. Ma vista di persona, anche nell'informalità della sua casa, l'assenza di una scintilla di sensualità e un profondo riserbo la facevano apparire meno femminile e più forte di quanto Dalgliesh si fosse aspettato; oltretutto, si teneva impettita e rigida come se volesse scacciare gli invasori dal suo spazio personale. La stretta di mano con cui l'aveva accolto era stata fresca e sicura, il breve sorriso molto accattivante. Dalgliesh sapeva di essere particolarmente sensibile al timbro della voce e la sua, sebbene per nulla stridula o sgradevole, gli suonava un po' forzata, come se la donna parlasse usando un tono deliberatamente innaturale.

La seguì lungo il corridoio fino alla cucina sul retro della casa. Era lunga quasi sei metri ed evidentemente svolgeva la triplice funzione di salotto, luogo di lavoro domestico e ufficio. Nella metà di destra appariva come una cucina ben equipaggiata, con una grande stufa a gas e un vecchio forno, un ceppo da macellaio, una credenza di fianco alla porta con dentro un assortimento di pentole ben lucidate e un lungo piano di lavoro con un portacoltelli di legno a forma di triangolo. Al centro spiccava invece un grande tavolo con un vaso pieno di fiori secchi. A sinistra c'era un camino acceso con le due nicchie occupate da scaffali che arrivavano fino al soffitto. Ai lati del camino erano sistemate due poltrone di vimini con cuscini lavorati a patchwork, e di fronte a una delle ampie finestre si trovava uno scrittoio con alzata avvolgibile; sulla destra si apriva una porta da scuderia, con la metà superiore alzata, affacciata sul cortile di pietra. Dalgliesh riconobbe alcuni eleganti vasi di terracotta contenenti erbe aromatiche ed esposti al sole. La stanza, che non ostentava nulla di superfluo o pretenzioso, era gradevole e confortante, e per un momento Dalgliesh si chiese perché gli facesse quell'effetto. Erano forse il lieve aroma delle erbe e l'odore di pane fresco, il ticchettio discreto dell'orologio a muro che oltre a segnare il passaggio dei minuti sembrava dominare il tempo, o erano forse il ritmico lamento del mare al di là della porta semiaperta e il senso di benessere ispirato dalle due poltrone e dal fuoco? O forse ancora era perché ricordava a Dalgliesh la cucina della canonica, dove il figlio unico e solitario aveva trovato calore e una compagnia senza tante pretese, pane caldo e piccoli dolcetti altrimenti proibiti?

Posò le bozze sullo scrittoio, rifiutò il caffè offerto da Alice Mair e la seguì fino alla porta, lasciandosi accompagnare alla macchina. Allora Alice disse: «Mi dispiace per sua zia... Mi dispiace per lei, signor Dalgliesh, voglio dire. Immagino che per un'ornitologa la morte cessi di essere una cosa terrificante quando vista e udito incominciano irrimediabilmente a calare. E morire nel sonno senza soffrire e senza causare fastidi al prossimo è una fine davvero invidiabile. Ma lei la conosceva da così tanto tempo, che forse le sembrava immortale...».

Le condoglianze formali, pensò Dalgliesh, erano sempre difficili da pronunciare e da accettare, e di solito suonavano banali o insincere. Le parole di Alice Mair, invece, erano intelligenti e sensibili. In effetti, Jane Dalgliesh gli era sembrata immortale. I vecchi, rifletté, sono il nostro passato. Quando se ne vanno, per un momento sembra quasi che il passato e noi stessi non abbiamo più un'esistenza reale. «Non credo che la morte fosse mai stata terrificante, per lei» rispose. «Non so se la conoscevo bene; ora mi piacerebbe aver cercato di conoscerla meglio, però. Mi mancherà.»

«Nemmeno io la conoscevo, e forse avrei dovuto impegnarmi di più. Era una donna molto riservata, credo fosse una di quelle fortunate persone che non trovano compagnia più gradevole della propria. Sembra sempre un atto di presunzione violare tanta autosufficienza. Forse anche lei è un po' così, ma se tollera la compagnia altrui, giovedì sera avrò un po' di gente a cena: quasi tutti colleghi di Alex, della centrale. Le andrebbe di partecipare? Tra le sette e mezzo e le otto.»

Sembrava più una sfida che un invito. Con sua stessa sorpresa, Dalgliesh si ritrovò però ad accettare. In realtà, l'intero incontro era stato piuttosto sorprendente. Alice Mair restò a fissarlo con un'espressione seria e intensa, mentre lui innestava la marcia e faceva inversione, convinto che la donna lo stesse osservando criticamente per vedere come se la cavava nelle cose pratiche. Ma, almeno, pensò mentre le rivolgeva un ultimo cenno di saluto, non gli aveva chiesto se era venuto nel Norfolk per contribuire alla cattura del Fischiatore.

 

5

 

Tre minuti dopo, Dalgliesh staccò il piede dall'acceleratore. Davanti a lui, sulla sinistra del sentiero, avanzava un gruppetto di bambine. La più grandicella spingeva un passeggino e le due più piccole procedevano di fianco attaccate con una mano alle aste di metallo. Sentendo la macchina che si avvicinava, la ragazzina si voltò e Dalgliesh ne scorse il volto aguzzo e delicato, incorniciato da capelli rosso dorati. Riconobbe le figlie dei Blaney, incontrate una volta mentre passeggiavano sulla spiaggia con la madre. A quanto pareva, la maggiore era andata a fare la spesa: il passeggino pieghevole rigurgitava di sacchetti di plastica. Dalgliesh rallentò. Non erano in pericolo perché il Fischiatore andava a caccia di notte, e comunque nessun veicolo l'aveva superato da quando aveva abbandonato la strada costiera; ma la ragazzina era carica e non avrebbe dovuto trovarsi così lontana da casa. Sebbene non avesse mai visto il cottage dei Blaney, la zia gli aveva detto che si trovava tre chilometri abbondanti più a sud. Si sforzò di ricordare tutto ciò che sapeva di loro. Il padre si guadagnava precariamente da vivere facendo il pittore: i suoi acquerelli innocui e leziosi si vendevano bene nei caffè e nei negozi di souvenir lungo la costa. La madre era gravemente malata di cancro: Dalgliesh si chiese se fosse ancora viva. L'istinto gli suggerì di caricarsi le ragazzine in macchina e riaccompagnarle a casa, ma non aveva molto senso. Quasi sicuramente la più grande (si chiamava Theresa, no?) sapeva di non dover assolutamente accettare passaggi dagli sconosciuti, soprattutto uomini, e di fatto lui era entrambe le cose. Mosso da un improvviso impulso, fece inversione e tornò a dirigersi verso il Martyr's Cottage. Stavolta la porta d'ingresso era già aperta, e il sole inondava il pavimento di piastrelle rosse. Alice Mair aveva udito la macchina ed era uscita dalla cucina asciugandosi le mani.

«Le figlie dei Blaney stanno andando a casa» annunciò Dalgliesh. «Theresa spinge un passeggino e cerca di tenere a bada le gemelle. So che potrei offrirgli un passaggio se a bordo con me ci fosse una donna, qualcuno che conoscono bene.»

«Conoscono me» fu la laconica risposta di Alice Mair.

Tornò in cucina, quindi uscì di nuovo. Chiuse la porta ma non a chiave e salì in macchina. Innestando la prima, Dalgliesh le sfiorò il ginocchio con la mano. La sentì ritrarsi quasi impercettibilmente, una reazione più emotiva che fisica, uno scatto piccolo e delicato. Dalgliesh dubitava che dietro a quella risposta si nascondesse un problema personale, e il silenzio della donna non lo preoccupava più di tanto. La loro conversazione fu infatti molto breve. «La signora Blaney è ancora viva?»

«No, è morta sei settimane fa.»

«E loro come se la cavano?»

«Non troppo bene, immagino. Ma Ryan Blaney non gradisce le intromissioni. Lo capisco. Se abbassasse la guardia tutti gli assistenti sociali del Norfolk, professionisti e non, gli piomberebbero addosso.»

Quando si fermarono accanto alle bambine, Alice Mair aprì la portiera della macchina.

«Theresa, questo è il signor Dalgliesh che vuole darvi un passaggio. È il nipote della signorina Dalgliesh di Larksoken Mill. Una delle gemelle può sedersi qui, sulle mie ginocchia. Voi due e il passeggino, invece, troverete posto dietro.»

Theresa guardò Dalgliesh senza sorridere e lo ringraziò. La bambina gli ricordava i ritratti di Elisabetta Tudor ancora giovanissima, con gli stessi capelli rosso dorati che incorniciavano un viso stranamente adulto, misterioso e composto, lo stesso naso affilato e gli occhi guardinghi. I volti delle due gemelle, versioni addolcite del suo, si girarono verso di lei con espressione interrogativa, quindi si schiusero in timidi sorrisi. Sembrava che fossero state vestite in fretta, e in un modo non esattamente consono a una lunga passeggiata sul promontorio, per quanto tiepido fosse l'autunno. Una portava un vestitino estivo a balze, di cotone rosa, un po' strappato, l'altra un grembiulino e una camicetta a quadretti. Le gambe, pateticamente magre, non erano protette in alcun modo. Theresa indossava un paio di jeans e una lurida maglietta con disegnata sopra la piantina della metropolitana di Londra. Dalgliesh pensò che poteva trattarsi di un ricordo di una gita scolastica nella capitale; le andava comunque troppo grande, e le maniche penzolavano flosce sulle braccia lentigginose, simili a stracci buttati su un ramoscello. Diversamente dalle sorelle, Anthony era anche troppo vestito: tutina e giubbotto imbottito e un berretto di lana calcato sulla fronte. Scrutava tutti senza sorridere, come un solido e austero Cesare.

Dalgliesh scese dalla Jaguar e cercò di districarlo dai sacchetti e dalle cinghie del passeggino, ma non ci riuscì. Le gambe rigide erano bloccate da una sbarra, e quel fagotto ostile era sorprendentemente pesante: sembrava di maneggiare una specie di cataplasma vagamente maleodorante. Theresa gli rivolse un fugace sorriso di commiserazione, tolse i sacchetti di plastica da sotto il sedile, quindi liberò con mosse esperte il fratellino e se lo issò sull'anca sinistra, mentre con l'altra mano ripiegava il passeggino con un unico e vigoroso scossone. Dalgliesh prese il bambino e aspettò che Theresa avesse terminato di aiutare le altre a salire a bordo, ordinando in tono deciso: «Statevene lì sedute tranquille». Anthony, che forse intuiva l'inettitudine di Dalgliesh, gli afferrò i capelli con una mano appiccicosa, sfiorandolo per un attimo con la guancia più vellutata di un petalo di rosa. Alice Mair rimase a osservare la scena dalla macchina, senza offrire il proprio aiuto. Impossibile capire cosa le passasse per la testa.

Quando la Jaguar si avviò, si rivolse verso Theresa e disse in tono estremamente gentile: «Tuo padre sa che siete usciti da soli?».

«Papà ha preso il furgone ed è andato dal signor Sparks, per la revisione. Il signor Sparks non crede che la passerà. E io mi sono accorta che eravamo rimasti senza latte per Anthony. Abbiamo bisogno del latte, e anche dei pannolini.»

«Giovedì sera darò una cena. Se tuo padre è d'accordo, verresti ad aiutare a servire in tavola come hai fatto il mese scorso?»

«Che cosa preparerà, signorina Mair?»

«Se ti avvicini te lo dico in un orecchio. Ci sarà anche il signor Dalgliesh, e voglio che sia una sorpresa.»

La testa dorata si tese verso quella brizzolata di Alice, che prese a mormorare qualcosa. Theresa sorrise, poi annuì con aria soddisfatta e cospiratoria.

Fu Alice Mair a indicare la strada per il cottage. Dopo circa un chilometro svoltarono verso il mare e la Jaguar avanzò sobbalzando su uno stretto viottolo fra siepi alte e incolte di rovi e sambuchi. Il viottolo conduceva esclusivamente allo Scudder's Cottage: il nome era dipinto su un'asse rozza e inchiodata al cancello. Al di là del cottage, il selciato si allargava in uno spiazzo ghiaioso in cui era possibile fare manovra, mentre una scarpata di ciottoli alta una dozzina di metri scendeva verso gli spumeggianti risucchi delle onde. Scudder's Cottage, con le sue piccole finestre pittoresche subito sotto il tetto di tegole spioventi, si affacciava su un disordinato tripudio di fiori che un tempo era stato un giardino. Theresa si avviò per prima fra l'erba che le arrivava quasi alle ginocchia, in mezzo a roseti incolti, e raggiunse la veranda, dove prese una chiave appesa a un chiodo. Non si trovava certo lì per motivi di sicurezza, pensò Dalgliesh, ma perché in quel modo era meno facile perderla. Entrarono. Dalgliesh reggeva Anthony in braccio.

C'era molta più luce di quanto non avesse creduto da fuori, grazie soprattutto a una porta aperta sul retro della casa che dava su una veranda con vetrata da cui si godeva la vista del promontorio. La stanza era in disordine: il tavolo di legno, al centro del locale, era ancora coperto dagli avanzi del pasto di mezzogiorno, un assortimento di piatti sporchi di salsa di pomodoro, una salsiccia mezza masticata, un bottiglione di aranciata senza tappo; gli indumenti dei bambini erano buttati sulla spalliera di un sedia davanti al camino e aleggiava un odore di latte, di corpi e fumo di legna. Ma ad attirare l'attenzione era un grande dipinto a olio appoggiato a un'altra sedia, di fronte alla porta. Era un ritratto di donna dal quale emanava un'energia straordinaria. Dominava tutta la stanza, e Dalgliesh e Alice Mair rimasero immobili a fissarlo in silenzio. Il pittore aveva evitato di poco la caricatura, ma il ritratto doveva essere soprattutto un'allegoria. Dietro la bocca larga e carnosa, l'espressione arrogante degli occhi, gli scuri capelli crespi da preraffaellita sciolti al vento, spiccava il profilo del promontorio, con tutti i particolari riprodotti meticolosamente, alla stregua di un primitivo del sedicesimo secolo: la canonica vittoriana, l'abbazia in rovina, la casamatta di cemento, gli alberi tormentati, il piccolo mulino, bianco e simile a un giocattolo, e, contro il cielo fiammeggiante della sera, i contorni crudi della centrale nucleare. Ma era la donna, dipinta più liberamente, a dominare il paesaggio con le braccia protese e i palmi rivolti verso il basso, in un gesto di benedizione. Il parere di Dalgliesh era che si trattasse di un dipinto brillante dal punto di vista tecnico, ma troppo elaborato e... frutto dell'odio. L'intenzione di Blaney di riprodurre un'immagine del male era evidente come se il quadro avesse una didascalia esplicativa. Era così diverso dalle solite opere di Blaney, che senza la sua vistosa firma Dalgliesh ne avrebbe messo in dubbio la paternità. Ricordava gli acquerelli slavati delle più note località del Norfolk: Blakeney, St. Peter Mancroft e la cattedrale di Norwich, realizzati per i negozi locali. Quei dipinti sembravano copiati da cartoline illustrate, e probabilmente era proprio così. E ricordava di aver visto uno o due piccoli dipinti a olio nei ristoranti e nei pub locali, tele dalla tecnica sbrigativa ed economica, così diversi dagli acquerelli che era difficile ritenerli opera dello stesso autore. Ma il ritratto era diverso dagli uni e dagli altri: era incredibile che un artista capace di produrre quell'orgia disciplinata di colori, di tecnica e di immaginazione, si accontentasse di sfornare falsi souvenir per i turisti.

«Non mi credevate capace di una cosa simile, vero?»

Erano tanto assorti nell'osservazione del quadro, che non lo avevano sentito entrare dalla porta spalancata. Li raggiunse, e si fermò a contemplare il ritratto come se lo vedesse per la prima volta. Le figlie, quasi obbedendo a un ordine silenzioso, si radunarono intorno a lui in quello che, in altri bambini, sarebbe stato un consapevole gesto di solidarietà familiare. Dalgliesh aveva visto Blaney l'ultima volta sei mesi prima, mentre sguazzava tutto solo nella sabbia, lungo la spiaggia, con gli strumenti del mestiere a tracolla sulle spalle. Rimase dunque colpito nel vedere il cambiamento che si era operato in lui: era magro, alto più di un metro e novanta, con i jeans strappati, la camicia di lana a scacchi aperta fin quasi alla cintura, e i piedi grandi e sporchi, calzati da sandali, sembravano ossa brune e inaridite. La faccia era un'immagine di rossa ferocia, contornata da barba e capelli fulvi e disordinati, gli occhi iniettati di sangue, i lineamenti scarni bruciati dal vento e dal sole e segnati dalla stanchezza sugli zigomi e sotto gli occhi. Dalgliesh vide Theresa prenderlo per mano, mentre una delle gemelle si avvicinava e gli cingeva una gamba con le braccia. Pensò che, per quanto feroce potesse apparire, le bimbe non avevano paura di lui.

«Buongiorno, Ryan» disse Alice Mair in tono tranquillo. Ma sembrava che non si aspettasse alcuna risposta. Indicò il ritratto con un cenno della mano, e riprese: «È straordinario, certamente. Cosa intende farne? Non credo che la modella abbia posato apposta, o che sia un quadro commissionato».

«Non era necessario che posasse. Conosco quella faccia. Lo presenterò alla mostra d'arte contemporanea di Norwich, il tre di ottobre, se riuscirò a portarlo fin là. Il furgone è fuori uso.»

«La settimana prossima dovrò andare a Londra in macchina: potrei ritirarlo e consegnarlo io, se mi dà l'indirizzo.»

«Se vuole» rispose laconicamente Blaney. Nonostante il tono sgarbato, Dalgliesh ebbe l'impressione che quella proposta lo avesse sollevato. «Lo lascerò impacchettato e con l'etichetta a sinistra della porta della baracca in cui dipingo. La lampada è appena sopra l'entrata. Può ritirarlo quando vuole. Non avrà bisogno di bussare.» Quelle ultime parole avevano la forza di un ordine, quasi di un avvertimento.

«La chiamerò appena so quando parto. A proposito, non credo conosca il signor Dalgliesh. Ha visto i bambini sulla strada e ha voluto dargli un passaggio» spiegò Alice.

Blaney non ringraziò, ma dopo un attimo di esitazione tese la mano e Dalgliesh gliela strinse. Poi disse in tono brusco: «Sua zia mi era simpatica. Mi aveva telefonato per offrirsi di aiutarmi quando mia moglie era ancora ammalata, e quando risposi che non ci si poteva fare niente, non insisté. Certa gente non sa stare lontana da un letto di morte. Come il Fischiatore: si diverte nel veder morire gli altri».

«No» disse Dalgliesh, «mia zia non insisteva mai. Mi mancherà. Condoglianze per sua moglie.»

Blaney non risposte. Fissò Dalgliesh come se stesse valutando la sincerità delle sue parole, quindi borbottò in tono piatto: «Grazie per aver aiutato i bambini» e prelevò Anthony dalle sue braccia. Era un chiaro gesto di congedo.

Nessuno dei due parlò, mentre Dalgliesh procedeva lungo il viottolo e svoltava sulla strada. Era come se il cottage avesse esercitato su di loro una sorta di incantesimo e fosse necessario liberarsene prima di riprendere a parlare. Poi Dalgliesh chiese: «Chi è la donna del ritratto?».

«Non credevo che lei non lo sapesse. È Hilary Robarts, amministratrice della centrale. La conoscerà a cena giovedì sera. Ha comprato Scudder's Cottage quando arrivò qui, tre anni fa, e da qualche tempo cerca di sfrattare i Blaney. Nella zona, questo ha causato un certo risentimento.»

«E per quale motivo vuole entrarne in possesso? Per andare a viverci?»

«Non credo. Penso l'abbia comprato per fare un investimento, e adesso vuole rivenderlo. Anche un cottage isolato, anzi, soprattutto un cottage isolato ha valore su questa costa. E Hilary Robarts ha una parte di ragione: Blaney diceva che sarebbe rimasto per poco. Deve essersi irritata perché si è servito della malattia e della morte della moglie per prorogare la partenza, e adesso si serve dei figli come di una scusa per rimangiarsi la promessa di sloggiare quando lei avesse rivoluto il cottage.»

Per Dalgliesh era interessante constatare che Alice Mair sembrava tanto bene informata sugli affari locali. Aveva pensato che fosse una donna molto riservata e che si curasse poco dei vicini e dei loro problemi. E lui? Nelle sue elucubrazioni circa la possibilità di vendere il mulino o di tenerlo come casa di vacanza, lo aveva considerato un rifugio dal chiasso di Londra, un rifugio eccentrico e remoto, un'evasione temporanea dalle pressioni del lavoro e del successo. Ma fino a che punto, anche in qualità di visitatore occasionale, poteva isolarsi dalla comunità e sottrarsi alle tragedie private, non meno che agli inviti a cena? Sarebbe stato abbastanza semplice declinare la loro ospitalità se fosse stato più deciso, come del resto era sempre quando si trattava di salvaguardare la sua privacy. Ma le regole meno manifeste del buon vicinato erano più difficili da evadere. A Londra si poteva vivere nell'anonimato e creare un ambiente personale e privato in cui costruire di proposito l'immagine che si voleva mantenere di fronte al mondo. In campagna si viveva invece come esseri sociali e l'opinione altrui aveva un peso ben definito. Dalgliesh aveva vissuto in quel modo durante la sua infanzia e adolescenza, nella canonica di campagna, e ogni domenica aveva partecipato a una liturgia familiare che rispecchiava, interpretava e santificava il mutare delle stagioni. Era un mondo che aveva abbandonato con pochi rimpianti e non sì aspettava di poterlo ritrovare proprio sul promontorio di Larksoken. Ma alcuni di quegli obblighi erano ancora lì, profondamente radicati in quella terra arida e sterile. Sua zia aveva vissuto nell'isolamento per quanto possibile, ma persino lei si era talvolta recata in visita ai vicini, e aveva anche cercato di aiutare i Blaney. Dalgliesh pensò all'uomo che aveva perduto la moglie e viveva prigioniero in quel cottage caotico alle spalle della grande diga di ghiaia, che notte dopo notte ascoltava il lamento incessante della marea e meditava sui torti reali e immaginari che aveva ispirato un ritratto così pieno di odio. Non poteva essere una situazione salutare né per lui, né per i figli. Anzi, pensò, non poteva essere salutare nemmeno per Hilary Robarts. «Le autorità lo aiutano con i bambini? Non deve essere facile, per lui» chiese.

«Gli danno tutto l'aiuto che è disposto a tollerare. Le gemelle frequentano una specie di asilo diurno, e quasi tutti i giorni passano a prenderle. Theresa, naturalmente, va a scuola. Prende l'autobus in fondo al viottolo. E lei e Ryan curano il piccolo. Meg Dennison, la governante del reverendo Copley e di sua moglie, nella vecchia casa del pastore, pensa che dovremmo muoverci di più per loro, ma è difficile dire cosa si può fare. Come ex maestra di scuola, pensavo che di bambini dovesse averne fin sopra ai capelli, e d'altronde io non fingo neppure di capirli.» A Dalgliesh venne in mente quando si era confidata all'orecchio di Theresa, che aveva ascoltato attenta per poi sorridere, e pensò che con tutta probabilità capiva quella ragazzina molto più di quanto non immaginasse.

Ma i suoi pensieri tornarono al ritratto. «Dev'essere spiacevole, soprattutto all'interno di una piccola comunità, essere oggetto di tanta malevolenza.»

Alice Mair comprese al volo. «Odio, direi, più che malevolenza. Spiacevole e piuttosto spaventoso. Certo, Hilary Robarts non si impressiona facilmente, ma per Ryan sta diventando una specie di ossessione, soprattutto da quando gli è morta la moglie. Si è convinto che in pratica è stata Hilary a spingerla nella tomba. Forse è comprensibile, gli esseri umani hanno sempre bisogno di trovare qualcuno a cui imputare la propria infelicità e su cui scaricare i sensi di colpa. Hilary Robarts è un comodo capro espiatorio.»

Era una vicenda sgradevole, e subito dopo l'effetto provocato dal ritratto sollevava in Dalgliesh un miscuglio di depressione e cupi presentimenti, che cercò di scacciare in quanto irrazionali. Lasciò cadere l'argomento e proseguirono in silenzio fino a quando Alice Mair scese davanti al cancello del Martyr's Cottage. Quando lei gli tese la mano rivolgendogli un altro dei suoi accattivanti sorrisi, rimase sorpreso.

«Sono contenta che si sia fermato per i bambini. Arrivederci a giovedì sera, allora. Così potrà conoscere di persona Hilary Robarts e giudicare se assomiglia o no al ritratto.»

 

6

 

Quando la Jaguar superò il punto più alto del promontorio, Neil Pascoe stava scaricando l'immondizia in uno dei due bidoni davanti alla roulotte: due sacchi di scatolette vuote di minestra e pappe per bambini, bucce di verdure, pannolini sporchi e contenitori di cartone schiacciati, un contenuto che nel complesso puzzava già, nonostante i sacchi fossero ben chiusi. Come sempre, mentre risistemava il coperchio si meravigliò della differenza che una ragazza e un bimbo di diciotto mesi potevano apportare nel volume dei rifiuti di una famiglia. Rientrando nella roulotte annunciò: «È appena passata una Jag. Sembra che il nipote della signorina Dalgliesh sia tornato da Londra».

Amy, che con qualche difficoltà stava sistemando un nastro nuovo nella vecchia macchina per scrivere, non si degnò nemmeno di alzare la testa.

«Il poliziotto! Forse è venuto per aiutarli a catturare il Fischiatore.»

«No, non è compito suo. Il Fischiatore non ha niente a che fare con la polizia di città. Probabilmente è qui in vacanza; o forse è venuto per decidere cosa fare del mulino: non può certo abitare qui e lavorare a Londra.»

«E allora perché non gli domandi se possiamo starci noi? Senza pagare l'affitto, ovvio. Potremmo fare da custodi, evitare che qualcuno lo occupi abusivamente. Dici sempre che avere una seconda casa o lasciare vuota una proprietà è un atteggiamento antisociale: va' a parlargli, allora, se ne hai il coraggio. Oppure andrò io, se ti fa troppa paura.»

Neil Pascoe sapeva che non era tanto un suggerimento quanto una minaccia tra il serio e il faceto. Ma per un attimo, rasserenato dalla certezza che formavano ancora una coppia e che Amy non stava pensando di piantarlo, accarezzò davvero l'idea come una possibile soluzione a tutti i loro problemi. Be', quasi tutti. Ma un'occhiata alla roulotte lo riportò alla realtà. Stava diventando difficile ricordare com'era quindici mesi prima, quando Amy e Timmy non erano ancora entrati nella sua vita: com'erano gli scaffali fatti a mano con le cassette per le arance, allineati contro la parete a fungere da credenza per i due libri, le due tazze, i due piatti e l'unica scodella che gli erano bastati fino a quel momento, com'erano addirittura esageratamente puliti la piccola cucina e il bagno, che aspetto aveva il letto, ben sistemato sotto la coperta a riquadri di lana lavorati a maglia e gli venne in mente l'unico appendiabiti del suo modesto guardaroba, e tutto quanto se ne stava ordinatamente stipato negli scatoloni dentro alla cassapanca, sotto il sedile. Amy non era sporca; si lavava anzi continuamente, e si lavava anche i capelli e quei pochi indumenti che possedeva. Pascoe passava ore intere a portare l'acqua dal rubinetto davanti al Cliff Cottage, l'unico punto di approvvigionamento di cui disponevano. E non finiva mai di andare a comprare le bombole di gas all'emporio di Lydsett, mentre il vapore che usciva senza sosta dal bollitore invadeva la roulotte con una nebbiolina umida. Ma Amy era cronicamente disordinata: i vestiti restavano dove li lasciava cadere, le scarpe erano buttate sotto il tavolo, le mutandine e il reggiseno erano infilati sotto i cuscini e i giocattoli di Timmy erano perennemente sparpagliati sul pavimento e sul ripiano del tavolo. I cosmetici, l'unico lusso che Amy si concedeva, affollavano il ripiano del bugigattolo della doccia, e Pascoe trovava barattolini aperti e semivuoti persino nella credenza insieme ai generi alimentari. Sorrise immaginando l'ispettore Adam Dalgliesh, quel vedovo senza dubbio pignolo e schizzinoso, che si faceva strada nel caos per discutere se erano adatti a fare i custodi al Larksoken Mill.

Per non parlare degli animali. Con gli animali selvatici, Amy era inguaribilmente sentimentale ed era raro non vedersi girellare intorno qualche creaturina menomata, abbandonata o affamata. I gabbiani con le ali incrostate di petrolio venivano ripuliti, curati e quindi lasciati di nuovo liberi; una volta c'era stato un bastardo randagio che avevano battezzato Herbert, un cagnone scoordinato con un'aria di lugubre disapprovazione che si era attaccato a loro per qualche settimana e con il suo vorace appetito aveva sortito effetti disastrosi sulle finanze della famiglia. Per fortuna, alla fine Herbert se n'era andato e con grande dispiacere di Amy non si era più fatto vedere in giro, anche se il suo guinzaglio era ancora appeso allo sportello della roulotte, mesto ricordo di un abbandono. Adesso invece c'erano i due gattini bianchi e neri trovati sul ciglio erboso della strada costiera mentre tornavano da Ipswich con il furgone. Amy gli aveva gridato di fermarsi, aveva raccolto i micini e aveva inveito contro la crudeltà degli esseri umani. Adesso dormivano sul letto, bevevano indiscriminatamente da tutti i piattini di latte o di tè messi a loro disposizione, erano docili e remissivi sotto le esuberanti carezze di Timmy e, magra consolazione, si accontentavano delle scatolette di cibo meno costose. Ma Pascoe era contento che ci fossero, perché anche loro sembravano garantire che Amy sarebbe rimasta.

L'aveva trovata (e usava quel termine come se parlasse di una pietra particolarmente bella trascinata a riva dal mare) un pomeriggio di giugno avanzato, l'anno precedente. Stava seduta sui ciottoli e guardava le onde, con le braccia strette intorno alle ginocchia e Timmy addormentato su un tappetino accanto a lei. Timmy aveva addosso una tutina celeste con sopra ricamati degli anatroccoli, e il visetto rotondo era roseo come quello di una bambola di porcellana, con le ciglia delicate abbassate sulle guance pienotte. Anche i lineamenti di Amy avevano un po' la precisione e il fascino artificiale di una bambola di porcellana, con la testa quasi tonda posata sul collo lungo e delicato, il naso camuso con uno spruzzo di lentiggini in cima, la bocca piccola con il labbro superiore carnoso e i capelli tagliati corti, in origine biondi ma con le punte color arancio che riflettevano il sole e tremavano nella brezza, cosicché la testa per un momento era parsa avere una vita propria, separata dal resto del corpo. E Pascoe l'aveva guardata come si guarda un raro fiore esotico. Ricordava ogni dettaglio del primo incontro: Amy indossava un paio di blue jeans stinti e una maglietta bianca aderente sopra i capezzoli appuntiti e i seni alti, di un cotone che sembrava del tutto insufficiente a proteggerla dal vento. Quando si era avvicinato, a passo incerto per mostrarsi amichevole e non metterla in allarme, Amy aveva posato su di lui un lungo sguardo curioso con i suoi straordinari occhi a mandorla azzurro-violetti.

Si era fermato accanto a lei e aveva detto: «Mi chiamo Neil Pascoe. Vivo in quella roulotte sull'orlo della scogliera. Stavo andando a prepararmi un po' di tè: ne gradisci una tazza?».

«Sì, se lo prepari tu.» Si era girata subito, tornando a contemplare il mare.

Cinque minuti più tardi era di ritorno con due tazze traboccanti di tè. «Posso sedermi?» aveva chiesto.

«Accomodati. La spiaggia è di tutti.»

E lui le si era seduto accanto. Insieme avevano osservato l'orizzonte, in silenzio. Adesso, quando ci ripensava, si meravigliava della propria audacia e dell'apparente inevitabilità e naturalezza di quell'incontro. Erano passati alcuni minuti prima di riuscire a trovare il coraggio di chiederle come fosse arrivata alla spiaggia. Lei aveva scrollato le spalle.

«Sono scesa dall'autobus in paese, poi sono venuta a piedi.»

«È parecchia strada, soprattutto con un bimbo in braccio.»

«Ci sono abituata.»

Poi, quando Pascoe aveva cominciato a fare domande, era venuta fuori tutta la storia. Lei l'aveva raccontata senza auto-commiserarsi, come se la cosa non fosse di particolare interesse e riguardasse qualcun altro. Non era una storia insolita. Amy viveva in uno dei piccoli alberghi privati di Cromer, a spese della Previdenza Sociale. Era stata a Londra ma poi aveva pensato che quell'estate sarebbe stato bello far prendere al bambino un po' di aria di mare. Le cose, però, non erano andate come sperava. La proprietaria dell'albergo non voleva bambini piccoli fra i piedi, e con l'avvicinarsi delle vacanze intendeva affittare le stanze per una somma superiore. Amy non credeva che avrebbe potuto cacciarla via, ma non aveva comunque intenzione di restare da quella strega.

Pascoe aveva chiesto: «E il padre del bambino non può aiutarti?».

«Non ha padre. Ce l'aveva... voglio dire, non è Gesù Cristo, ma adesso non ce l'ha.»

«Vuoi dire che è morto o che se n'è andato?»

«Che importa, l'uno o l'altro fa lo stesso. Senti, se sapessi chi era potrei anche sapere dov'è, non ti pare?»

Era seguito un lungo silenzio. Lei aveva bevuto il tè a piccoli sorsi e il bambino si era mosso nel sonno, grugnendo come un maialetto. Dopo qualche minuto, Pascoe aveva ripreso a parlare.

«Senti, se a Cromer non trovi un altro posto puoi venire a stare nella roulotte con me per un po'.» E si era affrettato ad aggiungere: «Voglio dire, c'è una seconda stanza da letto. È molto piccola, ci sta solo la cuccetta, ma per un po' potrebbe andare. Lo so, questo è un posto isolato, ma saremmo vicini alla spiaggia e per tuo figlio andrebbe bene».

Amy gli aveva nuovamente rivolto quello sguardo straordinario, e per la prima volta Pascoe vi aveva scorto, con rammarico, un'espressione calcolatrice.

«D'accordo» aveva detto lei. «Se non troverò un altro posto, domani tornerò.»

E quella notte lui era rimasto sveglio fino a tardi, un po' sperando e un po' temendo che la ragazza si rifacesse viva. Era tornata nel pomeriggio seguente, reggendo Timmy in braccio e il resto delle sue cose in uno zaino. Si era impadronita della roulotte e della sua vita. Pascoe non sapeva se ciò che provava per lei era amore, affetto o pietà, o un miscuglio di tutti e tre. Sapeva soltanto che nella sua esistenza piena di preoccupazioni la seconda paura in ordine di grandezza era che Amy potesse andarsene.

Ormai viveva nella roulotte da poco più di due anni, mantenuto da una borsa di studio di un'università del nord del paese che doveva permettergli di analizzare gli effetti della Rivoluzione Industriale sulle attività agricole dell'East Anglia. La sua tesi era quasi finita, ma negli ultimi sei mesi aveva praticamente smesso di lavorarci per dedicarsi alla sua vera passione: la crociata antinucleare. Dalla roulotte in riva al mare poteva tenere d'occhio la centrale di Larksoken, che spiccava contro il cielo, irriducibile quanto la sua stessa volontà di osteggiarla. La vedeva come un simbolo e una minaccia al contempo. Dalla roulotte dirigeva il People Against Nuclear Power, il PANUP, la piccola organizzazione della quale era presidente e fondatore. Quel caravan era stato un colpo di fortuna: il proprietario di Cliff Cottage era un canadese che, tornato nella sua terra d'origine e sedotto dalla nostalgia, l'aveva acquistato per tenerlo come casa per le vacanze. Una cinquantina d'anni prima il Cliff Cottage era stato teatro di un delitto. Si era trattato di un omicidio piuttosto comune: un uomo bistrattato aveva perso la pazienza e aveva fatto a pezzi la moglie con un'accetta. Ma se non era stato un caso particolarmente interessante e misterioso, di certo era stato quanto mai sanguinoso. Dopo l'acquisto del cottage, la moglie del canadese aveva udito descrizioni agghiaccianti del cervello sparso per le stanze e delle pareti coperte di sangue, cosa che l'aveva spinta a dichiarare che non aveva nessuna intenzione di stare lì ad abitarci né d'estate, né in qualunque altra stagione dell'anno. La stessa posizione isolata, tanto piacevole e seducente sulle prime, era diventata un elemento sinistro e repellente. E, tanto per aggravare il problema, le autorità locali non avevano mostrato molta simpatia per i progetti di ristrutturazione espressi dal nuovo proprietario. Deluso dal cottage e da quella montagna di difficoltà, il canadese aveva sbarrato le finestre ed era tornato a Toronto, con l'intenzione di rifarsi vivo in seguito per prendere una decisione finale in merito a quell'acquisto. Il proprietario precedente aveva parcheggiato sul retro della casa una grossa e vecchia roulotte, e il canadese non aveva avuto problemi ad affittarla a Neil per due sterline la settimana, reputandolo un ottimo sistema per avere qualcuno che tenesse d'occhio la proprietà. E da quella roulotte, che fungeva da casa e da ufficio, Neil Pascoe conduceva la sua campagna antinucleare. Cercava di non pensare al momento in cui, tra sei mesi, la borsa di studio sarebbe scaduta e lui avrebbe dovuto trovarsi un lavoro. Sapeva di dover restare sul promontorio per non perdere mai di vista la mostruosa costruzione che riusciva a dominare la sua fantasia non meno di quanto dominasse il panorama.

Ma adesso, all'incertezza del futuro finanziario si aggiungeva una minaccia nuova e terrificante. Circa cinque mesi prima, aveva partecipato a una "giornata aperta" indetta dalla centrale in occasione di un discorso preliminare della vice amministratrice Hilary Robarts. Neil aveva contestato quasi ogni parola pronunciata dalla donna, e quella che doveva essere un'introduzione informativa a un esercizio di pubbliche relazioni si era trasformata in una specie di rissa. Nel numero successivo del suo breve notiziario, aveva riferito l'episodio in termini che, ora lo capiva, erano stati decisamente imprudenti. Hilary Robarts l'aveva querelato per diffamazione. L'udienza si sarebbe svolta fra quattro settimane, e Neil Pascoe sapeva che, comunque fosse finita, per lui sarebbe stata la rovina. A meno che la Robarts non morisse entro le prossime sei settimane (e perché mai doveva?), quel processo avrebbe decretato la fine della sua vita sul promontorio, la fine dell'organizzazione, la fine di tutto ciò in cui aveva sperato e che si era ripromesso di fare.

Amy batteva a macchina le buste per spedire le copie del bollettino. Ne aveva già un mucchio pronto, e Neil cominciò a piegare i fogli e a inserirli. Non era facile. Aveva cercato di risparmiare sulle dimensioni e sulla qualità della carta, e adesso le buste minacciavano di scoppiare. C'era un elenco di duecentocinquanta persone, e di queste una piccola minoranza era formata da sostenitori attivi del PANUP. Molti non pagavano all'organizzazione le quote associative e quasi tutti i pamphlet finivano alle autorità pubbliche, alle aziende locali e alle industrie nei dintorni di Larksoken e Sizewell. Pascoe si chiese quanti di quei duecentocinquanta bollettini sarebbero stati letti, e in un misto di ansia e depressione rifletté lugubramente sul costo totale di quell'iniziativa, che pure era così limitata. Oltre tutto, il bollettino di quel mese non era affatto soddisfacente. Prima di imbustarlo lo rilesse, rendendosi conto della sua disomogeneità e dispersività. In quel momento il suo obiettivo principale era confutare l'affermazione che l'energia nucleare fosse in grado di evitare i danni provocati all'ambiente dall'effetto serra. Purtroppo, tutte le proposte alternative, dall'energia solare all'uso di lampadine economiche, apparivano ingenue e per nulla convincenti. Il suo articolo sosteneva che l'elettricità prodotta dalle centrali nucleari non poteva sostituire quella fornita dai combustibili fossili a meno che tutte le nazioni del mondo costruissero sedici reattori nuovi alla settimana per i cinque anni successivi al 1995, un programma irrealizzabile e che comunque inaspriva tremendamente la minaccia nucleare. Ma le statistiche, come tutte le cifre che usava, erano state pescate a casaccio da una quantità di fonti ed erano tutt'altro che autorevoli. Nulla di ciò che produceva come prova sembrava davvero frutto del suo lavoro, e il resto del bollettino era un guazzabuglio delle solite notizie allarmistiche sfruttate centinaia di volte in passato: allusioni a presunte violazioni delle norme di sicurezza, poi insabbiate, dubbi circa l'affidabilità delle vecchie centrali Magnox, il problema insoluto dell'eliminazione e del trasporto delle scorie. E in quel numero aveva faticato a trovare un paio di lettere intelligenti da inserire nella rubrica della posta: a volte sembrava che nel Norfolk a leggere il bollettino del PANUP fossero unicamente gli imbecilli.

Amy stava sbloccando un paio di tasti incastrati. «Neil, questa macchina fa schifo. Ci metterei meno tempo se scrivessi gli indirizzi a mano.»

«Vedrai che con una bella pulita andrà meglio, e il nastro nuovo è buono.»

«No, invece, è ancora un disastro. Perché non ne compri una nuova? Sarebbe un bel guadagno di tempo.»

«Non posso permettermelo.»

«Non puoi permetterti una macchina per scrivere nuova e credi di poter salvare il mondo?»

«Per salvare il mondo non occorrono tante cose, Amy. Gesù Cristo non possedeva nulla: né casa, né denaro, né proprietà di alcun genere.»

«Quando sono venuta a stare qui mi pareva che avessi detto di non essere religioso.»

Pascoe si sorprendeva sempre perché, anche se apparentemente non gli dava retta, Amy riusciva a ricordare affermazioni e commenti che risalivano a molti mesi prima. «Non credo che Cristo fosse Dio» disse. «Non credo che esista un Dio. Ma credo in quello che insegnava.»

«Se non era un Dio, non capisco che importanza abbia il suo insegnamento. Comunque, l'unica cosa che ricordo è la raccomandazione di porgere l'altra guancia, e proprio non mi va. Voglio dire, è una pazzia. Se uno ti dà uno schiaffo, tu ne dai uno a lui, ma più forte. Comunque, so che lo crocefissero, quindi alla fine non dev'essere servito molto nemmeno a lui. Ecco cosa succede, quando porgi l'altra guancia.»

«Ho una Bibbia, qui, da qualche parte. Puoi leggerla, se vuoi. Comincia dal Vangelo secondo San Marco.»

«No, grazie, ne ho già avuto abbastanza a casa.»

«Quale casa?»

«Una casa, prima che nascesse il bambino.»

«Per quanto tempo ci sei stata?»

«Due settimane. Due settimane di troppo. Poi sono scappata e ho trovato un buco.»

«E il buco dov'era?»

«Islington, Camden, King's Cross, Stoke Newington: ha importanza? Adesso sono qui, okay?»

«Okay. Okay, Amy.»

Smarrito nei suoi pensieri, Neil Pascoe non si accorse che aveva smesso di piegare i bollettini.

«Senti» riprese Amy, «se non hai intenzione di aiutarmi con le buste, vai a cambiare la rondella al rubinetto. Gocciola da settimane e Timmy scivola sempre nel fango.»

«Va bene, ci vado subito.»

Pascoe prese la cassetta degli attrezzi dal pensile in cui la teneva, fuori dalla portata di Timmy. Era contento di lasciare la roulotte: in quelle due settimane era diventata un luogo soffocante. Si fermò a chiacchierare con il piccolo, ingabbiato nel suo box. Lui e Amy avevano raccolto alcune grosse pietre, sulla spiaggia, avevano scelto quelle con i buchi, e poi le avevano legate insieme con una robusta corda fissandole lungo un lato del box. Timmy passava ore intere a sbatterle l'una contro l'altra o contro le sbarre, oppure, come adesso, a sbavare su un ciottolo nel tentativo di metterselo in bocca. A volte tentava di comunicare con una pietra, facendo lunghi balbettii interrotti da strilletti di trionfo. Neil si inginocchiò aggrappandosi alle sbarre, strusciò il naso contro il naso di Timmy e fu ricompensato da un tenero e grande sorriso. Somigliava molto alla madre, aveva la stessa testa tonda, il collo delicato, la stessa bocca ben disegnata. Soltanto gli occhi erano diversi, più distanti, grosse sfere azzurre con le sopracciglia diritte e folte che li facevano sembrare pallidi buchi. La tenerezza che provava per quel bambino era uguale e diversa da quella che sentiva per la madre: ormai non riusciva a immaginarsi più la vita sul promontorio senza di loro.

Ma il rubinetto lo mise K.O. Per quanto si sforzasse e strattonasse con la chiave inglese, non riuscì a svitarlo. Anche quel semplice lavoretto domestico sembrava al di là delle sue possibilità. "Vuoi cambiare il mondo e non sai cambiare una rondella": ecco cosa gli avrebbe detto Amy. Dopo un paio di minuti rinunciò al tentativo, lasciò la cassetta degli attrezzi vicino al muro del cottage e raggiunse il ciglio della scogliera, poi scivolò giù verso la spiaggia. Arrivò fino al mare e, quasi con violenza, si sfilò le scarpe. Quando il peso dell'ansia per le ambizioni fallite e il futuro incerto diventava un fardello insopportabile, era così che trovava un po' di pace: fermandosi a osservare la curva venata delle onde, il tumulto della spuma che si infrangeva accarezzandogli i piedi, gli ampi archi disegnati sulla sabbia dall'acqua che si ritirava e il pizzo di bollicine più scure. Ma quel giorno, tutto ciò non bastava a confortare il suo spirito. Guardò l'orizzonte senza vederlo e pensò al presente, al futuro privo di speranza, ad Amy, alla sua famiglia. Infilò le mani in tasca e strinse la busta sgualcita dell'ultima lettera inviatagli da sua madre.

Sapeva che i suoi genitori erano delusi, anche se non glielo dicevano apertamente; le allusioni indirette erano altrettanto efficaci. «La signora Reilly continua a chiedermi come sta Neil. Non mi piace rispondere che vivi in una roulotte e non hai lavoro.» E certamente, non le piaceva rispondere che viveva con una ragazza. Neil Pascoe aveva scritto parlando di Amy: i suoi minacciavano costantemente di fargli visita e, per quanto improbabile, la prospettiva aveva aggiunto un'ulteriore dose di ansia alla sua esistenza già poco serena.

"Ospito temporaneamente una ragazza madre che in cambio batte a macchina per me. Non preoccupatevi: non vi presenterò all'improvviso un nipotino bastardo."

Dopo aver imbucato la lettera, aveva provato un senso di vergogna: quel banale tentativo di essere spiritoso era troppo simile a uno sleale ripudio di Timmy. E sua madre non l'aveva trovato divertente, né rassicurante. La lettera aveva prodotto una sfilza incoerente di minacce, avvertimenti, rimproveri addolorati e allusioni velate alle possibili reazioni della signora Reilly, se mai fosse venuta a saperlo. Il suo stile di vita non era apprezzato nemmeno dai suoi due fratelli. Non erano arrivati all'università, e la differenza di tenore di vita (case in comprensori residenziali, camere da letto con bagno adiacente, caminetti artificiali che fingevano di ardere nel soggiorno, mogli impiegate, una macchina nuova ogni due anni e appartamenti in multiproprietà a Maiorca) assicurava a entrambi piacevoli ore di soddisfatti confronti che arrivavano sempre alla medesima conclusione: Neil doveva darsi una regolata perché non era giusto, dopo tutti i sacrifici fatti da mamma e papà per mantenerlo agli studi... Soldi buttati al vento!

Ad Amy non aveva detto nulla, ma sarebbe stato felice di confidarsi con lei se soltanto avesse mostrato un po' di interesse. Amy non faceva domande sul suo passato e non gli rivelava niente del proprio. La sua voce, il suo corpo, il suo odore gli erano ormai familiari, ma in sostanza di lei non ne sapeva di più adesso del giorno in cui era arrivata. Amy rifiutava ogni forma di assistenza pubblica: diceva che non intendeva permettere ai ficcanaso dei servizi sociali di entrare nella roulotte per controllare se dormiva insieme a Neil. E Neil Pascoe non poteva che comprenderla. Nemmeno lui li voleva fra i piedi; tuttavia pensava che, nell'interesse di Timmy, Amy avrebbe dovuto prendere ciò che le veniva offerto. Non le dava soldi, ma sfamava entrambi, e considerata l'entità della borsa di studio, era più che sufficiente. Nessuno veniva a trovarla, nessuno le telefonava. Ogni tanto Amy riceveva una cartolina, di solito un panorama a colori di Londra con messaggi privi di significato. A quanto gli risultava, però, lei non rispondeva mai.

Avevano così poco in comune. Amy lo aiutava con il PANUP, ma Neil Pascoe non sapeva fino a che punto si trattasse di un impegno sentito e sincero. Sapeva che giudicava stupido il suo pacifismo, e poi c'era stata la conversazione di quella mattina.

«Senti, se io vivo vicino a un nemico che ha un coltello, una pistola e una mitragliatrice, e ce li ho anch'io, non butterò via i miei prima che lui butti via i suoi. Gli dirò: bene, via il coltello, poi la pistola e poi la mitragliatrice. Io e lui contemporaneamente. Perché dovrei rinunciare alle mie armi permettendo a lui di tenersi le sue?»

«Uno dei due deve pur cominciare, Amy. Deve esserci un gesto di fiducia iniziale. Dobbiamo trovare la fede per aprire i cuori e le mani e dire: "Guarda, io non ho niente, solo la mia umanità. Abitiamo sullo stesso pianeta. Il mondo è pieno di sofferenza, non dobbiamo aggravarla. La paura deve finire".» Ma lei era ostinata. «Non capisco perché l'altro dovrebbe buttare le armi una volta che sa che io non le ho più.»

«Perché dovrebbe tenerle, scusa? Non ha più niente da temere da te.»

«Le terrebbe perché gli farebbe piacere e penserebbe che potrebbe averne bisogno, un giorno. Gli piacerebbe tenersi il potere, sapere di avermi in pugno. Davvero, Neil, a volte sei ingenuo. La gente è fatta così.»

«Ma, Amy, non potremmo nemmeno più discutere. Non sto parlando di coltelli, pistole e mitragliatrici: sto parlando di armi che nessuno potrebbe usare senza distruggere se stesso e probabilmente tutto il resto del pianeta. Comunque è bello che tu mi aiuti con il PANUP anche se non sei una simpatizzante.»

Amy aveva detto: «Il PANUP è diverso, e poi io simpatizzo. Ma penso che tu sprechi il tuo tempo scrivendo lettere, facendo discorsi e spendendo tutti i soldi in questi bollettini. Non servirà a nulla: devi combattere gli altri alla pari».

«Ma qualcosa di utile è già stato fatto. In tutto il mondo la gente comune fa marce e dimostrazioni, si fa sentire, fa sapere ai potenti di volere un mondo pacifico per sé e per i propri figli. È gente normale, come te.»

Amy si era seccata. «Io non sono comune né normale! Non permetterti di chiamarmi così. Se mai esistono persone normali e comuni, io non sono una di loro!»

«Scusami, Amy, non era questo che intendevo.»

«Allora non dirlo.»

L'unica cosa che avevano in comune era il rifiuto di mangiare carne. Poco dopo che Amy era arrivata, lui le aveva detto: «Sono vegetariano, ma non pretendo che anche tu e Timmy lo siate». E mentre parlava si era chiesto se Timmy fosse già abbastanza grande per mangiare carne. «Puoi comprare bistecche o spezzatini a Norwich, se vuoi.»

«No, mi va bene così. Gli animali non mi mangiano, e io non mangio loro.»

«E Timmy?»

«Timmy mangia quello che gli dò. Non fa storie.»

Era vero. Neil Pascoe non riusciva a immaginarsi un bambino più accomodante e felice di lui. Aveva visto un box in offerta in un negozio di Norwich, e l'aveva portato a casa caricandolo sul tettuccio del furgone. Timmy ci stava per ore e ore, girellando, alzandosi in piedi e reggendosi in un precario equilibrio, con il pannolino che gli scivolava invariabilmente all'altezza delle ginocchia. Quando era contrariato o si arrabbiava, chiudeva gli occhi, spalancava la bocca e tratteneva il respiro per poi esplodere in un urlo di tale potenza da far temere che tutti gli abitanti di Lydsett si precipitassero a controllare che non lo stessero torturando. Amy non lo sculacciava mai, ma lo sollevava sul fianco e lo buttava sul suo letto esclamando: «Ma che brutto, brutto rumore!».

«Non dovresti stare con lui, piuttosto? Potrebbe morire, a furia di trattenere il respiro a quel modo.»

«Sei scemo? Non si lascerà morire: i bambini non lo fanno mai.»

Adesso Neil Pascoe sapeva di volerla, di volerla mentre era evidente che Amy non voleva lui, e non avrebbe più rischiato un rifiuto. La seconda notte trascorsa insieme in roulotte, Amy aveva aperto il divisorio fra i due letti, si era avvicinata e si era fermata a guardarlo con aria solenne. Era completamente nuda. Lui aveva detto: «Senti, Amy, non sei obbligata a pagarmi».

«Io non pago mai niente, almeno non così. Però fa' come vuoi.» Dopo un attimo di silenzio, gli aveva chiesto: «Sei gay o che altro?».

«No, ma non mi piacciono le avventure.»

«Nel senso che non ti piacciono davvero o che pensi che non dovresti averne?»

«Forse voglio dire che non dovrei averne.»

«Sei religioso?»

«No, non nel senso tradizionale del termine. Ma penso che il sesso sia troppo importante per prenderlo così alla leggera. Vedi, se dormissimo insieme e io... e io... ti deludessi, potremmo litigare, e allora te ne andresti. Lo riterresti doveroso. Te ne andresti con Timmy.»

«E allora me ne andrei.»

«Non voglio che tu te ne vada per qualcosa che ho fatto io.»

«O che non hai fatto. Be', forse hai ragione.» Un altro silenzio, poi Amy aveva aggiunto: «Ti dispiacerebbe se me ne andassi?».

«Sì» aveva risposto lui. «Mi dispiacerebbe.»

Amy gli aveva voltato le spalle. «Finisco sempre per andarmene. Prima non era mai dispiaciuto a nessuno.»

Era stata la seconda avance che gli aveva fatto, e Neil sapeva che sarebbe stata anche l'ultima. Adesso dormivano con la brandina di Timmy incuneata fra il divisorio e il letto di lui. A volte, di notte, quando si svegliava perché il bambino si era mosso, tendeva le mani e stringeva le sbarre, scosso dal desiderio di rompere quella fragile e simbolica barriera dell'abisso che li separava. Amy era levigata e aveva curve dolci come un pesce o un gabbiano, così vicina che poteva sentire il ritmo del suo respiro accompagnarsi ai vaghi sospiri del mare. La desiderava, e premeva il viso contro il cuscino e gemeva perché era un desiderio senza speranze. Cosa poteva trovare Amy in lui che la inducesse a desiderarlo, se non per gratitudine, pietà, curiosità o noia, come quella prima notte? Neil Pascoe odiava il proprio corpo: le gambe magre con le rotule troppo sporgenti, gli occhi ravvicinati, la barba rada che non bastava a mascherare la debolezza della bocca e del mento. E a volte era tormentato dalla gelosia. Senza averne le prove, si era convinto che nella vita di Amy esistesse un altro uomo. Quando gli diceva che desiderava passeggiare sola sul promontorio, lui restava a guardarla allontanarsi con la certezza che stesse recandosi a un appuntamento con il suo amante. E quando tornava, immaginava di scorgere lo splendore della sua pelle, il sorriso soddisfatto di chi ha trascorso ore di segreta felicità, e gli sembrava quasi di poter riconoscere dal suo odore che aveva fatto l'amore con un altro.

L'università gli aveva già comunicato che la borsa di studio non sarebbe stata prorogata. Non era una decisione strana: era stato preavvertito all'atto del conferimento. Nella speranza di riuscire ad accantonare una piccola somma con cui tirare avanti fino a quando avesse trovato un lavoretto, aveva risparmiato il più possibile. Non gli importava che lavoro fosse: bastava che gli desse da vivere e gli permettesse di restare sul promontorio per continuare la sua campagna. In teoria pensava che avrebbe potuto organizzare il PANUP ovunque, ma sapeva di essere ormai irrimediabilmente legato a Larksoken, alla roulotte, alla massa di cemento che sorgeva otto chilometri più a nord e aveva apparentemente il potere di dominare la sua volontà non meno della sua immaginazione. Aveva già provato a informarsi, ma nessuno era entusiasta all'idea di assumere un noto agitatore; anche quelli che sembravano simpatizzare con la causa antinucleare, non avevano lavoro da offrirgli. E intanto il suo piccolo capitale si stava prosciugando, accelerato dalla spesa di Amy, Timmy e i gatti. In più, c'era in sospeso la querela: una minaccia che era una certezza.

Quando, dieci minuti più tardi, tornò alla roulotte, anche Amy aveva rinunciato a lavorare. Era stesa sul letto e fissava il soffitto. Smudge e Whisky le stavano raggomitolati sullo stomaco.

Neil la guardò e disse: «Se la causa Robarts andrà avanti, avrò bisogno di soldi. Non potremo continuare così. Dobbiamo fare qualche piccolo progetto».

Amy si sollevò a sedere e lo fissò, mentre i gattini, infastiditi, scappavano via. «Vuoi dire che dovremo andarcene?»

In condizioni normali, quel plurale gli avrebbe sollevato il cuore. Ora lo notò appena. «È possibile.»

«Ma perché? Voglio dire, non puoi trovare niente che costi meno della roulotte: prova a trovare una stanza per due sterline la settimana. Siamo fortunati ad avere questo posto.»

«Ma qui non c'è lavoro, Amy. Se dovrò risarcire alla Robarts i danni morali, dovrò trovarmi un lavoro. Quindi dovrò andare a Londra.»

«Che genere di lavoro?»

«Uno qualsiasi. Ho una laurea.»

«Be', non capisco lo stesso perché vuoi andartene da qui. Puoi sempre chiedere un sussidio all'assistenza sociale.»

«Non mi servirà certo a pagare i danni.»

«Be', se proprio devi andare, forse io posso restare. Posso anche pagare l'affitto, a questa cifra. Dopotutto, che differenza farebbe per il proprietario? Continuerà ad avere le sue due sterline alla settimana, chiunque le paghi.»

«Non potresti vivere qui sola.»

«Perché no? Ho vissuto in posti peggiori.»

«E con che cosa? Come troveresti i soldi?»

«Be', se tu te ne andassi potrei rivolgermi all'assistenza, no? Potrebbero mandare i loro ficcanaso e non avrebbe più nessuna importanza. Non potrebbero dire che vengo a letto con te, se tu non ci fossi. E poi, ho qualche soldo sul mio libretto di risparmio postale.»

La crudele noncuranza della sua risposta gli trafisse il cuore, e mentre riprendeva a parlare avvertì con profondo disgusto uscirgli di bocca'una nota di autocommiserazione: «È davvero questo che vuoi, Amy? Che io non stia qui con te?».

«Non fare lo scemo. Scherzavo. Davvero, Neil, dovresti vederti: hai un'aria così infelice. Comunque potrebbe anche non esserci... la causa per diffamazione, voglio dire.»

«Ci sarà, se non ritira la querela. Hanno già fissato la data per l'udienza.»

«Lei potrebbe ritirare la querela, o magari potrebbe morire. Potrebbe affogare mentre fa la sua nuotata serale, dopo i titoli del notiziario delle nove, regolare come un orologio.»

«Chi te l'ha detto? Come fai a sapere che va a nuotare tutte le sere?»

«Me l'hai detto tu.»

«Non lo ricordo.»

«Allora me l'avrà detto qualcun altro, uno dei frequentatori abituali del Locai Hero, forse. Non è un segreto, mi pare.»

«Non affogherà» rispose Neil. «È un'ottima nuotatrice. Non corre rischi stupidi. E non posso nemmeno augurarle di morire. Non si può predicare l'amore e praticare l'odio.»

«Puoi farlo benissimo... augurarle di morire, intendo. Forse l'ammazzerà il Fischiatore. Oppure tu potresti vincere la causa, e allora sarebbe lei a doverti pagare. Sarebbe da ridere.»

«Non è per niente probabile. Ho sentito un legale della Protezione dei diritti dei cittadini, venerdì scorso, quando sono andato a Norwich. A lui sembra una faccenda piuttosto seria, quella donna sta dalla parte della ragione. Mi ha consigliato di cercarmi un avvocato.»

«E tu fallo.»

«E con che soldi?»

«Procurati un'assistenza legale. Metti un appello nel bollettino per chiedere un contributo di sostegno.»

«Non posso. È già difficile continuare a pubblicare il bollettino stesso, con quello che mi costa in carta e francobolli.»

Amy si fece improvvisamente seria. «Mi verrà in mente qualcosa. Mancano ancora quattro settimane, e in quattro settimane può succedere di tutto. Smettila di preoccuparti, andrà tutto per il meglio. Ascoltami, Neil, ti garantisco che questa querela non arriverà mai in tribunale: ti basta?» Per quanto illogico, Neil Pascoe sentì che, sì, per il momento gli bastava.

 

7

 

Erano le sei del pomeriggio, e nella centrale di Larksoken la conferenza settimanale interdipartimentale stava per volgere alla conclusione. Era durata mezz'ora più del solito. Il dottor Alex Mair nutriva la convinzione, che normalmente con la sua autorità riusciva a imporre agli altri, che dopo tre ore di discussione fosse del tutto impossibile fornire un contributo di idee nuove e originali. Ma l'ordine del giorno era stato molto impegnativo: la bozza revisionata del piano di sicurezza, la razionalizzazione della struttura interna per passare dagli attuali sette dipartimenti a tre soltanto - ingegneria, produzione e risorse - il rapporto del laboratorio di controllo provinciale sugli studi ambientali e l'agenda preliminare con il comitato di collegamento locale. Con quest'ultimo si trattava di organizzare una manifestazione a scadenza annuale inevitabile ma anche utile, e richiedeva una preparazione meticolosa poiché raccoglieva i rappresentanti degli organi di governo interessati, le autorità locali, la polizia, i pompieri, il Sindacato Nazionale Agricoltori e l'Associazione Proprietari Terrieri. A volte Mair si risentiva al pensiero della fatica e del tempo che era necessario dedicare a quella montagna di preparativi, ma d'altro canto sapeva che era importante.

La riunione settimanale si era svolta nel suo ufficio, al tavolo di trattativa dirimpetto alla finestra che dava verso sud. Stava calando l'oscurità e l'enorme vetrata era un rettangolo nero nel quale si riflettevano le facce dei convenuti, proprio come le teste prive di corpo dei viaggiatori seduti nello scompartimento illuminato di un treno che corre nella notte. Sospettava che qualcuno fra i capi dipartimento, in particolare Bill Morgan, l'ingegnere, e Stephen Masell, sovrintendente alla manutenzione, avrebbe preferito l'ambiente più rilassato del suo salotto privato, un paio d'ore di chiacchiere sulle comode poltrone, senza un ordine del giorno fisso, e poi, più tardi, un bicchiere in compagnia al pub locale. Certamente quello era uno dei possibili stili di gestione e direzione della centrale, ma non il suo.

Chiuse la cartelletta rigida in cui la sua assistente aveva ordinatamente inserito documenti e allegati, e chiese: «C'è nient'altro?».

Ma non poteva sperare di cavarsela tanto facilmente. Alla sua destra, come sempre, sedeva Miles Lessingham, sovrintendente operativo. La sua immagine riflessa nel vetro ricordava un teschio idrocefalo. Mair spostò lo sguardo dal riflesso alla faccia reale, senza notare alcuna differenza di rilievo. Le crude luci della stanza gettavano ombre cupe sotto gli occhi profondamente scavati e il sudore luccicava sulla fronte ampia e ossuta dell'uomo, attraversata dal ciuffo di capelli chiari e ribelli. Lessingham si appoggiò alla spalliera e disse: «La proposta... la proposta di cui si parla tanto in giro... immagino che abbiamo almeno il diritto di chiedere se ti è stata fatta in maniera ufficiale».

Mair rispose con calma. «La risposta è no, non mi è stata avanzata in forma ufficiale. La pubblicità è quindi prematura. La stampa ne ha avuto sentore come ne ha sempre verso le voci di corridoio, ma non c'è ancora nulla di ufficiale. Uno spiacevole risultato dell'attuale abitudine di diffondere informazioni importanti è che gli interessati sono sempre gli ultimi a sapere. Se e quando la cosa verrà ufficializzata, voi sarete i primi a esserne informati.»

«La cosa, Alex, avrà serie implicazioni, tu capisci» disse Lessingham. «Voglio dire, se te ne andrai. Non dimenticare il contratto già firmato per il nuovo reattore PWR, la riorganizzazione interna con tutta la confusione che ne seguirà, la privatizzazione delle forniture elettriche. È un momento poco adatto per un cambiamento al vertice.»

«C'è forse mai stato un momento adatto?» ribatté Mair. «Ma fino a quando non succederà, ammesso che succeda, è inutile starne a discutere.»

«Ma presumo che la riorganizzazione interna continuerà» intervenne John Standing, il chimico della centrale.

«Lo spero, tenendo conto del tempo e dell'energia che abbiamo impegnato per pianificarla. Sarei sorpreso se un cambiamento al vertice modificasse una riorganizzazione necessaria e già avviata.»

«Chi nomineranno?» chiese Lessingham. «Un direttore scientifico o un amministratore?» La domanda era meno innocente di quanto sembrasse.

«Immagino un amministratore.»

«Nel senso che le ricerche finiranno?»

«Quando io me ne andrò, presto o tardi, le ricerche finiranno comunque» rispose Mair. «L'avete sempre saputo. Le ho portate io, e non avrei mai accettato il posto se non fossi stato libero di continuarle anche qui. Ho chiesto particolari attrezzature, e le ho ottenute. Ma la ricerca a Larksoken è sempre stata una specie di anomalia. Abbiamo fatto un buon lavoro e continuiamo a farlo; però, da un punto di vista strettamente logico, dovrebbero occuparsene altrove: a Harwell o Winfrith, per esempio. Altre domande?»

Ma Lessingham non intendeva lasciarsi scoraggiare. «A chi dovrai rispondere? Al ministro per l'energia oppure direttamente all'AEA?»

Mair conosceva la risposta, ma non aveva nessuna voglia di rivelarla. «È ancora in discussione» rispose infine.

«Senza dubbio come altre questioni trascurabili tipo stipendio, portata delle responsabilità e carica ufficiale. Controllore dell'energia nucleare ha un certo fascino, mi piace. Ma cosa controllerai, esattamente?»

Vi fu un breve silenzio. Poi Mair disse: «Se si sapesse la risposta, senza dubbio a quest'ora la nomina sarebbe già stata fatta. Non intendo castrare la discussione, ma non sarebbe meglio limitarci alle questioni di competenza di questo comitato? Bene: c'è altro?». Questa volta nessuno rispose.

Hilary Robarts, vice amministratrice, aveva già richiuso la propria cartelletta. Non aveva avanzato alcuna domanda e gli altri, Mair ne era sicuro, avrebbero pensato che lui le avesse già rivelato quanto c'era da sapere.

Prima ancora che uscissero, la sua assistente, Caroline Amphlett, era venuta a portar via le tazze e a sgombrare il tavolo. Lessingham aveva l'abitudine di lasciare lì il suo ordine del giorno, un piccolo gesto di protesta contro il mucchio di scartoffie prodotte dalla riunione settimanale. Il dottor Martin Goss, capo del dipartimento di fisica medica, aveva passato tutto il tempo a scarabocchiare in modo ossessivo. Il suo blocco era coperto di decoratissime e coloratissime mongolfiere: evidentemente, una parte dei suoi pensieri aveva continuato a indugiare sulla sua passione di sempre. Caroline Amphlett si muoveva con la sua solita grazia tranquilla ed efficiente. Nessuno parlava. Caroline era con Mair da tre anni, ma dalla mattina in cui era entrata in quello stesso ufficio per il colloquio non era riuscito a conoscerla meglio. Era una ragazza alta e bionda, con la pelle liscia e gli occhi distanti, piuttosto piccoli e di un azzurro straordinario; se soltanto fosse stata un po' più vivace, la si sarebbe potuta definire senz'altro bella. Mair sospettava che si servisse del carattere riservato del suo lavoro per mantenere nei suoi confronti un riserbo quasi intimidatorio. Era la segretaria più efficiente che avesse mai avuto, e lo infastidiva che gli avesse chiaramente fatto capire che, se e quando lui si fosse trasferito, lei era comunque decisa a restarsene a Larksoken. Gli aveva detto di essere spìnta nella sua scelta da motivi personali. In poche parole da Jonathan Reeves, un giovane ingegnere del laboratorio. Mair era rimasto sorpreso e dispiaciuto dalla sua decisione, non meno che dalla prospettiva di dover assumere un nuovo incarico con un'assistente personale sconosciuta. Ma c'era stata anche un'altra reazione, più inquietante: Caroline non aveva quel tipo di bellezza femminile in grado di attrarlo, anzi, gli era sempre sembrata fredda, eppure era sconcertante pensare che una nullità sfregiata dall'acne come Reeves fosse riuscito a scoprire e sondare profondità di cui lui, Alex, nell'intimità quotidiana non aveva mai sospettato l'esistenza. A volte si era domandato, sia pure con scarsa curiosità, se Caroline non fosse meno docile e più complessa di quanto lasciava supporre, e aveva avuto la sensazione che la facciata di impegnata, seria efficienza messa in mostra alla centrale fosse in realtà costruita con cura per nascondere una personalità diversa e molto meno accomodante. Ma se la vera Caroline era accessibile a Jonathan Reeves, se davvero desiderava quell'individuo scialbo e noioso, allora non meritava neppure la più piccola attenzione da parte di Alex.

 

8

 

Lasciò ai capi dipartimento il tempo di tornare in ufficio prima di chiamare Hilary Robarts e chiederle di tornare indietro. Sarebbe stato più normale chiederle con disinvoltura di trattenersi un momento dopo la riunione, ma ciò che aveva da dirle era di carattere privato e da qualche settimana aveva cercato di ridurre il numero delle occasioni in cui gli altri sapevano che restavano soli. La prospettiva del colloquio non lo entusiasmava. Hilary vi avrebbe letto una critica personale, e sapeva per esperienza che poche donne sopportavano una cosa del genere. Una volta era la mia amante, pensò. Ero innamorato di lei per quanto potevo esserlo. E se non era amore, almeno la desideravo. Renderà più semplice o più doloroso ciò che ho da dirle? Quando si arrivava a un confronto decisivo con una donna, tutti gli uomini erano vigliacchi. La prima dipendenza postnatale, di carattere fisico, era troppo profondamente radicata nell'animo maschile per poterla estirpare del tutto. Lui non era più vigliacco di altri. E poi, cosa aveva detto quella donna nei grandi magazzini di Lydsett? «George farebbe qualunque cosa per evitare una scenata.» Era comprensibile, poveraccio: le donne, con il loro calore che sapeva di grembo, il loro borotalco e i seni gonfi di latte glielo avevano insegnato ben bene nelle prime quattro settimane di vita.

Quando Hilary Robarts entrò, Alex si alzò dalla sedia e attese che lei prendesse posto di fronte alla scrivania. Poi aprì il cassetto di destra, tirò fuori un bollettino e glielo tese.

«L'hai visto? È l'ultimo bollettino del PANUP di Neil Pascoe.»

«People Against Nuclear Power: il popolo contro l'energia nucleare. In altre parole, Pascoe e una dozzina di isterici male informati. L'ho visto, certo. Lo spedisce anche a me. Ci tiene a farmelo vedere.»

Hilary diede una rapida scorsa al bollettino e lo restituì. Mair lo prese e lesse a voce alta: «Molti lettori sapranno probabilmente che sono stato querelato da Hilary Robarts, vice amministratrice alla centrale di Larksoken, per una presunta diffamazione a causa di quanto ho scritto nel numero di maggio di questo stesso bollettino. Naturalmente mi difenderò e, siccome non ho abbastanza denaro per pagarmi un avvocato, lo farò da solo. Questo non è altro che l'esempio più recente della minaccia alla libertà d'informazione e di parola esercitata dalla lobby nuclearista. A quanto pare, anche la critica più blanda viene seguita dalla minaccia di un'azione legale. Ma in tutto ciò esiste anche un aspetto positivo: l'azione di Hilary Robarts dimostra che noi, la gente comune che vive in questa contea, stiamo lasciando il segno. Attaccherebbero il nostro bollettino se non fossero spaventati? E la querela per diffamazione, qualora si arrivi all'udienza, se gestita in modo adeguato offrirà un'ottima occasione per fare della pubblicità a livello nazionale. Nel frattempo, pubblico in calce le date delle prossime "giornate aperte" indette dalla centrale di Larksoken, al fine di favorire una partecipazione numerosa con cui sostenere le nostre ragioni contro l'energia nucleare, prima della visita guidata alla centrale».

«Te l'ho detto, l'ho visto» ripeté Hilary. «Non so perché tu abbia sprecato tempo a leggerlo. Mi sembra deciso ad aggravare i capi d'accusa per diffamazione che già gli pendono addosso. Se avesse un po' di buon senso, si troverebbe un avvocato come si deve e terrebbe la bocca chiusa.»

«Non può permettersi nessun avvocato. E non potrà risarcire alcun danno.» Mair tacque per un momento, poi aggiunse a bassa voce: «Nell'interesse della centrale, credo che dovresti ritirare la querela».

«È un ordine?»

«Non ho il potere di costringerti a farlo, e lo sai. Dunque te lo sto solo chiedendo. Non riuscirai a ottenere nulla da lui, è un povero squattrinato. Non ne vale la pena.»

«Per me sì. Quella che spaccia come una blanda critica era una grave diffamazione, e l'ha diffusa a destra e a sinistra. Non ha scusanti. Ricordi le sue parole? "Una donna la cui reazione a Chernobil è stata affermare che sono morte solo trentun persone, una donna che può liquidare come privo di importanza uno dei più grandi disastri nucleari della storia in cui migliaia di persone sono finite in ospedale, centomila e più sono state esposte a radiazioni fatali, che ha colpito territori sconfinati e rischia di causare oltre cinquantamila morti per cancro nel prossimo mezzo secolo: una donna così, è assolutamente indegna di lavorare in una centrale atomica. Finché ci resterà, dovremo nutrire i dubbi più seri circa il fatto che a Larksoken si pensi davvero al problema della sicurezza." Mi pare una chiara accusa di incompetenza professionale. Se resterà impunito, non ci libereremo più di lui.»

«Non sapevo che avessimo il compito di liberarci dei critici scomodi. Che metodi avevi in mente?» Mair tacque, avvertendo in ritardo nella propria voce una traccia dello stridulo miscuglio di sarcasmo e pomposità che a volte lo assaliva e verso il quale provava un morboso disgusto. Poi continuò: «È un libero cittadino che vive dove vuole. Ha diritto alle sue opinioni. Hilary, non è un avversario degno di te. Se lo trascini in tribunale farà pubblicità alla sua causa e tu non ne ricaverai nessunissimo utile. Noi stiamo cercando in tutti i modi di convincere la gente che vive qui, non di inimicarcela. Lasciamo andare là dove è possibile, prima che qualcuno istituisca un fondo per pagargli la difesa. Un martire sul promontorio di Larksoken è più che sufficiente».

Mentre Mair parlava, Hilary si alzò e prese a camminare su e giù per la stanza. Poi si fermò e si girò verso di lui. «È di questo che si tratta, vero? La reputazione della centrale, la tua reputazione. E la mia? Se ritiro la querela, adesso, sarà come ammettere che aveva ragione lui e che non sono degna di lavorare qui.»

«Quello che ha scritto non ha danneggiato la tua reputazione agli occhi delle persone che contano. E fargli causa non ti servirà a molto. È imprudente lasciare che le decisioni siano influenzate dall'orgoglio personale. La cosa più ragionevole è ritirare con discrezione la querela. Cosa contano i sentimenti?» Mair non riuscì a restare seduto mentre Hilary andava avanti e indietro. Si alzò e andò alla finestra. Continuava a sentire la sua voce incollerita, ma non era intenzionato ad affrontarla direttamente. Si concentrò sul riflesso della figura in movimento, sui capelli ondeggianti di lei. «Cosa contano i sentimenti?» insisté. «L'importante è il lavoro.»

«Per me contano. E tu non l'hai mai capito, vero? La vita si basa sui sentimenti, e anche l'amore. È stato lo stesso con l'aborto, mi costringesti a farlo. Ti sei mai domandato cosa provavo allora, che cosa volevo?»

Oh, Dio, pensò Mair, non questo... non adesso. Continuò a girarle le spalle. «È ridicolo sostenere che ti ho costretta. Come avrei potuto farlo? Ritenevo che provassi i miei stessi sentimenti, che per te fosse comunque impossibile pensare di avere un figlio.»

«Oh, no, no che non lo era. Se tieni tanto alla precisione, allora cerchiamo anche di essere precisi su questo punto. Sarebbe stato scomodo, imbarazzante, dispendioso: ma non impossibile. E nemmeno adesso lo è. Per l'amor di Dio, voltati, Alex. Sto parlando con te, e quello che dico è importante.»

Mair si girò e tornò alla scrivania. Disse con calma: «Sta bene, mi sono espresso in modo inesatto. Puoi avere un figlio, se è questo che vuoi. Ne sarò felice per te, purché tu non pretenda che io ne sia il padre. Ma adesso stiamo parlando di Neil Pascoe e del PANUP. Abbiamo fatto tanto, qui, per promuovere buone relazioni con la comunità locale, e non voglio vedere tutto rovinato da un'azione legale assolutamente superflua, soprattutto ora che stiamo per iniziare il lavoro con il nuovo reattore».

«Allora cerca di impedirlo. E dato che stiamo parlando di relazioni pubbliche, mi sorprende che tu non abbia tirato fuori Ryan Blaney e lo Scudder's Cottage. Il mio cottage, caso mai l'avessi dimenticato. Cosa dovrei fare? Lasciargli la proprietà, a lui e ai figli, senza chiedere l'affitto... nell'interesse delle pubbliche relazioni?»

«È un'altra faccenda e come direttore non mi riguarda. Ma se vuoi la mia opinione, credo che sbagli cercando di estrometterlo semplicemente perché hai ragione. Paga l'affitto, no? E tu non hai bisogno di quella casa.»

«Invece ne ho bisogno. È mia. L'ho comprata e adesso voglio venderla.»

Hilary si lasciò cadere di nuovo sulla sedia, e anche Mair si sedette. Con un enorme sforzo si impose di guardare negli occhi della donna, dove lesse con grande disagio una sofferenza che certo superava la collera. «Presumibilmente» disse, «lui lo sa e se ne andrà appena possibile. Ma non sarà facile. È rimasto vedovo da poco e ha quattro figli. Mi risulta che fra la gente del posto covi un certo risentimento.»

«Non ne dubito, soprattutto al Locai Hero, dove Ryan Blaney passa gran parte del suo tempo e spende gran parte del suo denaro. Non intendo aspettare. Se ci trasferiremo a Londra nei prossimi tre mesi, non resta molto tempo per risolvere la questione del cottage. Non voglio lasciarla in sospeso, devo essere in grado di piazzarlo il più presto possibile.»

Mair sapeva che quello era il momento in cui avrebbe dovuto dire con fermezza: "Forse io andrò a Londra, ma non con te". Tuttavia non gli riuscì. Si disse che era tardi, che dopo una dura giornata quello era il momento peggiore per intavolare una discussione. Hilary era già nervosa. Una cosa alla volta. L'aveva affrontata per la questione di Pascoe e, sebbene avesse reagito più o meno come aveva previsto lui, forse ci avrebbe pensato e avrebbe seguito il suo consiglio. E per quanto riguardava Ryan Blaney, in fondo aveva ragione: non erano affari suoi. Il colloquio non aveva fatto altro che rinsaldare in lui due intenzioni già chiare. Innanzitutto, Hilary non sarebbe mai andata a Londra con lui, e poi non l'avrebbe raccomandata come amministratrice di Larksoken. Nonostante la sua efficienza, l'intelligenza, l'istruzione, non era la persona adatta a quel posto. Per un momento pensò che la sua merce di scambio poteva essere proprio quella. "Non ti offro il matrimonio, ma l'incarico più importante cui tu possa aspirare." Ma sapeva che non era possibile: non avrebbe lasciato l'amministrazione della centrale nelle mani di Hilary. Prima o poi lei avrebbe capito di non aver ottenuto né il matrimonio, né la promozione, ma quello era il momento sbagliato per farglielo sapere, e Mair si sorprese a chiedersi ironicamente quale sarebbe potuto mai essere il momento giusto.

Invece disse: «Senti, siamo qui per dirigere una centrale nucleare con efficienza e in ottemperanza alle norme di sicurezza. È un lavoro necessario e importante. Naturalmente lo facciamo con impegno, altrimenti non saremmo qui. Ma siamo scienziati e tecnici, non evangelisti. Non stiamo gestendo una campagna religiosa».

«I nostri avversari sì, però. E quel Pascoe: tu lo vedi come una nullità insignificante, ma non lo è. È un individuo disonesto e pericoloso. Guarda come razzola fra i dati per pescare singoli casi di leucemia che ritiene di poter ascrivere alle radiazioni. Adesso ha in mano l'ultimo rapporto della Comare per alimentare questa sua preoccupazione. E il bollettino del mese scorso, quelle scemenze sui treni della morte che di notte attraversano silenziosamente i sobborghi settentrionali di Londra? A sentirlo, si direbbe che portassero carichi scoperti di scorie radioattive. A lui non interessa che finora l'energia nucleare abbia fatto risparmiare al mondo cinquecento milioni di tonnellate di carbone. Non ha mai sentito parlare dell'effetto serra? Voglio dire, quell'imbecille è ignorante fino a questo punto? Non ha idea dei danni causati al pianeta dal consumo dei combustibili fossili? Nessuno gli ha mai parlato delle piogge acide o delle sostanze cancerogene contenute nei residui del carbone? E poi perché non parla dei cinquantasette minatori sepolti vivi proprio quest'anno nel disastro di Borken? Le loro vite non contano? Pensa al chiasso che avrebbero fatto se si fosse trattato di un incidente nucleare.»

«Pascoe è soltanto una voce, e di un'ignoranza patetica.»

«Ma ottiene un certo effetto, e tu lo sai. Dobbiamo rispondere alla passione con la passione.»

Mair si concentrò su quella parola. Non stiamo parlando di energia nucleare, pensò, stiamo parlando di passione. Parleremmo così se fossimo ancora amanti? Mi chiede un impegno per qualcosa di più personale dell'energia atomica. Si voltò verso di lei e all'improvviso si sentì colpire non dal desiderio, ma dal ricordo penosamente intenso del desiderio che un tempo aveva provato per lei. E insieme al ricordo emerse un'immagine vivida: loro due insieme nella casa di Hilary, i suoi turgidi seni, i suoi capelli che gli cadevano sul viso, le labbra, le mani, le cosce di Hilary...

«Se vuoi una religione, se hai bisogno di una religione, trovatela» disse bruscamente. «Ce ne sono molte e puoi scegliere. D'accordo, l'abbazia è in rovina e credo che quel prete impotente nella Vecchia Canonica non abbia molto da offrire. Ma trova qualcosa o qualcuno: rinuncia al pesce di venerdì, non mangiare carne, sgrana il rosario, spargiti il capo di cenere, medita quattro volte al giorno, prostrati in direzione della tua mecca personale. Ma per amor di Dio, ammesso che esista, non trasformare in religione la scienza.»

Il telefono squillò sulla scrivania. Caroline Amphlett se n'era andata, e il collegamento avveniva tramite linea esterna diretta. Quando alzò il ricevitore, Mair vide che Hilary era già in piedi accanto alla porta. Gli lanciò un'ultima occhiata e uscì a passo sostenuto e deciso.

Al telefono c'era sua sorella. «Speravo proprio di trovarti. Ricordati di passare alla fattoria di Bollard a prendere le anatre per giovedì. Le avrà preparate. A proposito, saremo in sei. Ho invitato anche Adam Dalgliesh. È tornato sul promontorio.»

Mair riuscì a risponderle con la stessa calma. «Congratulazioni. Lui e la zia sono riusciti a evitare gli inviti di tutti i vicini, negli ultimi cinque anni. Come hai fatto?»

«L'ho invitato. Forse pensa di tenere il mulino come casa per le vacanze ed è disposto a riconoscere di avere qualche vicino. O forse intende vendere, e in questo caso può arrischiarsi a partecipare a una cena senza finire nella trappola dell'intimità. Ma perché non attribuirgli una semplice debolezza umana, il desiderio di mangiare un buon pasto senza essere costretto a prepararselo?»

E così i posti a tavola sarebbero stati abbinati, pensò Mair, anche se non doveva essere stato quello il motivo dell'invito. Alice disprezzava quella convenzione vecchia come l'Arca di Noè secondo cui un uomo in più, per quanto stupido e brutto, era accettabile, mentre una donna in più, per quanto bella e spiritosa, era imbarazzante.

«Dovrò parlare delle sue poesie?»

«Immagino sia venuto a Larksoken per allontanarsi da chi vuole parlarne, ma non sarebbe male se dessi una sfogliata al libro. Ho il suo ultimo volume, ed è poesia vera, Alex, non prosa rielaborata.»

«Con i versi moderni è ancora possibile riconoscere la differenza?»

«Oh, sì» disse Alice. «Se si può leggere come prosa, allora è prosa. È un criterio infallibile.»

«Ma immagino che le università inglesi non l'approverebbero. Io me ne vado fra una decina di minuti. Non dimenticherò le anatre.» Mentre riagganciava, Mair sorrise: sua sorella aveva lo straordinario potere di restituirgli sempre il buonumore.

 

9

 

Prima di andarsene si fermò per un attimo sulla soglia e si guardò intorno come se vedesse la stanza per la prima volta. Agognava il suo nuovo lavoro, e si era dato da fare per ottenerlo. Ma proprio adesso che stava per essere suo, capiva quanto gli sarebbe mancata Larksoken, il suo isolamento, la sua forza selvaggia e priva di compromessi. Nulla era stato fatto per abbellire il posto, al contrario di quanto era accaduto a Sizewell, sulla costa del Suffolk, o per creare un gradevole panorama di prati ben tosati, alberi e cespugli fioriti, come quelli che aveva occasione di ammirare durante le sue periodiche visite a Winfrith, nel Dorset. Verso il mare era stato eretto un basso muro ondeggiante rivestito di selce, e dietro quel riparo ogni primavera una fascia di vivaci giunchiglie si lasciava accarezzare dai venti marzolini. Per armonizzare o addolcire quella grigia immensità di cemento, era stato fatto ben poco di più. Ma era proprio questo che gli piaceva: la distesa turbolenta del mare grigiobruno e striato di bianco sotto un cielo sconfinato, le finestre che poteva aprire per lasciare entrare all'istante il rombo sommesso e incessante delle onde, simile a un tuono in lontananza. In particolare amava le tempestose sere d'inverno, quando, se si tratteneva a lavorare fino a tardi, riusciva a scorgere all'orizzonte le luci delle navi che scendevano lungo la costa dirette a Yarmouth, o il lampeggiare dei battelli faro e il raggio dell'Happisburgh Lighthouse, che da generazioni e generazioni avvertiva i marinai della presenza di infidi banchi di sabbia. Anche nella notte più buia, grazie alla luce che il mare sembrava assorbire e riflettere misteriosamente, riusciva a distinguere la splendida torre quattrocentesca della chiesa di Happisburgh, simbolo delle precarie difese umane contro quel mare pericolosissimo. La torre doveva essere stata l'ultima cosa visibile della terraferma per centinaia di marinai annegati in pace e in guerra. La sua mente, sempre tenace custode dei fatti, rievocava un gran numero di episodi del genere. L'equipaggio della Peggy, sospinta a riva il 19 dicembre 1770, i centodiciannove uomini dell'Invincible naufragata il 13 marzo 1801 mentre si apprestava a raggiungere la flotta di Nelson a Copenaghen, l'equipaggio dell'Hunter disperso nel 1804... Molti di quegli uomini erano sepolti sotto i tumuli erbosi nel cimitero di Happisburgh. Costruito in un'epoca di fede, il campanile era stato anche simbolo dell'insopprimibile speranza che il mare restituisse i morti e che Dio fosse il signore delle acque come lo era della terraferma. Ma adesso i marinai potevano vedere, assai più gigantesca del campanile, l'enorme massa rettangolare della centrale di Larksoken. Per chi ricercava simboli negli oggetti inanimati, il suo messaggio era semplice e chiaro: l'uomo, con la sua intelligenza e i suoi sforzi, poteva comprendere e dominare il mondo, rendere la sua vita transitoria più piacevole e comoda e libera dalle sofferenze. Per lui era una sfida più che sufficiente, e se avesse avuto bisogno di una fede per sentirsi ispirato, quella gli sarebbe bastata. Ma a volte, nelle notti più tenebrose, la scienza e il suo simbolo gli sembravano transitori quanto le vite di coloro che erano annegati, e si sorprendeva a domandarsi se quella grande mole avrebbe un giorno ceduto, a poco a poco, come il cemento assalito dalle onde delle fortificazioni dell'ultima guerra, e come essa sarebbe diventata il simbolo spezzato della lunga storia dell'uomo su quella costa desolata. O forse avrebbe resistito al tempo e al mare, e sarebbe ancora stata in piedi quando l'ultima tenebra fosse calata sul pianeta? Nei momenti di maggior pessimismo, la sua mente sapeva che era una tenebra inevitabile, sebbene non si aspettasse di vederla giungere nel suo tempo, forse neppure nel tempo dei suoi figli. A volte sorrideva ironicamente fra sé e sé, e si diceva che lui e Neil Pascoe, su due fronti diversi, si comprendevano bene. L'unica differenza stava nel fatto che uno di loro aveva speranza.

 

10

 

Jane Dalgliesh aveva acquistato il Larksoken Mill cinque anni prima, quando si era trasferita dalla precedente residenza sulla costa del Suffolk. Il mulino, costruito nel 1825, era una pittoresca torre di mattoni a quattro piani, con una cupola ottagonale e quattro scheletriche pale. Era stato trasformato qualche anno prima che arrivasse a comprarlo la signorina Dalgliesh, con l'aggiunta di un edificio in selce a due piani che ospitava un salotto, uno studiolo e una cucina al pianterreno, più tre camere da letto al piano superiore, due delle quali con bagno annesso. Dalgliesh non aveva mai chiesto alla zia il perché di quel trasferimento, ma immaginava che il principale fascino del mulino consistesse nel suo isolamento, nella sua prossimità a importanti riserve ornitologiche e nell'imponente veduta del promontorio, del cielo e del mare che si godeva dall'ultimo piano. Forse aveva nutrito l'intenzione di renderlo nuovamente funzionante, ma con l'avanzare dell'età non aveva trovato l'energia o l'entusiasmo necessari a far fronte all'impegno. Dalgliesh aveva ereditato il mulino come una responsabilità piacevole ma piuttosto onerosa, insieme a una considerevole fortuna. L'origine di quel lascito era stata chiarita solo dopo la morte della zia. Inizialmente le era derivato da un famoso ornitologo dilettante, un tipo eccentrico con il quale aveva intrattenuto per molti anni un rapporto di amicizia, e comunque Dalgliesh non avrebbe mai saputo se si era trattato di qualcosa di più. La zia aveva speso poco per sé, aveva fatto regolarmente della beneficenza a un'organizzazione di tutto rispetto di cui si era ricordata nel testamento senza però eccedere in generosità, e aveva lasciato il resto dei suoi averi al nipote, senza spiegazioni o moniti o particolari attestazioni di affetto, anche se indubbiamente le parole "il mio carissimo nipote" erano state sincere. Dalgliesh aveva sempre provato simpatia e rispetto per lei, si era trovato bene in sua compagnia, ma non aveva mai pensato di conoscerla veramente o di poterla conoscere meglio un giorno. E quando era morta, scoprire quanto gli dispiaceva era stata quasi una sorpresa.

L'unico cambiamento che la zia Jane aveva apportato era stata la costruzione di un garage; e dopo che Dalgliesh ebbe scaricato la Jaguar e l'ebbe parcheggiata, decise di salire all'ultimo piano del mulino finché c'era ancora un po' di luce. La stanza del piano terreno con le due enormi macine di granito appoggiate al muro e l'antico odore di farina conservava un'aria di mistero e di incantesimo, di un luogo privato del suo scopo e del suo significato, e non vi entrava mai senza provare un senso di desolazione. Tra un piano e l'altro c'erano soltanto scale a pioli e, mentre si aggrappava ai gradini, vedeva le lunghe gambe della zia fasciate nei calzoni che sparivano al piano superiore. Lei aveva utilizzato soltanto la stanza più in alto: l'aveva arredata semplicemente, con un piccolo scrittoio e una sedia rivolti verso il mare, un telefono e il binocolo. Entrando, Dalgliesh la immaginò seduta lì nelle giornate e nelle sere estive, intenta a lavorare sui saggi che talvolta venivano pubblicati dalle riviste di ornitologia, e a guardare ogni tanto il mare e la linea dell'orizzonte. Gli sembrava di vedere ancora la sua faccia quasi scolpita, da azteca, con gli occhi velati, i capelli neri striati di grigio raccolti in una crocchia, ed ebbe l'impressione di sentire quella che, per lui, era stata una delle voci femminili più belle mai ascoltate.

Era pomeriggio inoltrato, la luce era dolce e vellutata, il mare un'immensa distesa azzurra e increspata, con una pennellata di viola all'orizzonte. I colori e le forme erano resi più intensi dagli ultimi raggi di sole, e le rovine dell'abbazia apparivano irreali, una fantasia dorata contro l'azzurro delle onde, mentre l'erba secca tradiva lo splendore di un campo irriguo. In corrispondenza di ogni punto cardinale si apriva una finestra e, binocolo alla mano, Dalgliesh fece lentamente il giro della stanza. A destra, i suoi occhi seguirono la stretta via fra i canneti che conducevano ai cottage dai muri di selce, ai tetti all'olandese e alle tegole del villaggio di Lydsett, fino alla torre rotonda della chiesa di St. Andrew. A nord, il panorama era dominato dall'immensa mole della centrale nucleare, con il blocco degli uffici e, più indietro, la costruzione che ospitava il reattore e il grande edificio di acciaio rivestito d'alluminio in cui era alloggiata la turbina. Quattrocento metri oltre la riva, c'erano le piattaforme e le prese attraverso cui l'acqua marina passava nelle pompe di raffreddamento del reattore. Dalgliesh si spostò alla finestra orientale e osservò le case sul promontorio. Lontano, in direzione sud, si scorgeva appena il tetto di Scudder's Cottage; alla sua sinistra, i muri di selce della casa di Alice Mair brillavano sotto gli ultimi raggi di sole e, circa ottocento metri più a nord, tra i pini californiani che orlavano quella parte di costa, c'era il cottage squadrato preso in affitto da Hilary Robarts, una villa suburbana ben proporzionata ma stridente in quell'ambientazione, rivolta verso l'entroterra come a ignorare di proposito il mare. Ancora più all'interno, e a malapena visibile dalla finestra a sud, c'era la Vecchia Canonica, collocata come una casa di bambola vittoriana in un ampio giardino incolto che, a quella distanza, appariva verde e formale come un parco di città.

Squillò il telefono. Fu un trillo sgradevole. Dalgliesh era venuto a Larksoken proprio per sfuggire a quelle intrusioni, ma non era una chiamata del tutto inattesa. All'apparecchio c'era Terry Rickards: disse che, se non era un eccessivo disturbo, gli sarebbe piaciuto andare a scambiare quattro chiacchiere con l'ispettore Dalgliesh. Alle nove andava bene? Dalgliesh non riuscì a inventare una scusa. Dieci minuti dopo lasciò la torre e chiuse la porta a chiave per timore che qualche bambino vi si avventurasse e si ferisse cadendo dalle scale a pioli. Abbandonò la torre immersa nel buio e nella solitudine ed entrò nel Mill Cottage per disfare i bagagli e prepararsi la cena.

Il grande salotto con il pavimento di pietra di York, i tappeti e il camino aperto costituivano un confortevole e nostalgico miscuglio di vecchio e di nuovo. Quasi tutti i mobili gli erano familiari dall'infanzia, dai tempi delle visite ai nonni; la zia li aveva ereditati perché era l'ultima della sua generazione. Solo l'impianto musicale e il televisore erano relativamente nuovi. La musica era stata importante per Jane Dalgliesh, e sugli scaffali c'era una raccolta piuttosto eclettica di dischi con i quali il nipote avrebbe avuto di che consolarsi durante le due settimane di vacanza. La cucina non conteneva nulla di superfluo, ma per una donna che pur apprezzando il cibo preferiva prepararlo con il minimo fastidio, c'era tutto il necessario. Dalgliesh infilò sotto il grill un paio di braciole d'agnello, condì un'insalata e si accinse a godersi qualche ora di solitudine prima dell'arrivo di Rickards e delle sue preoccupazioni.

Il fatto che sua zia avesse deciso di comprarsi un televisore continuava a sorprenderlo un po'. Era stata forse attratta dagli ottimi programmi di storia naturale e poi, come tanti altri neofiti che Dalgliesh aveva conosciuto, si era lasciata affascinare da tutto il resto, come per rifarsi del tempo perduto? Sembrava improbabile. Accese l'apparecchio per controllare che funzionasse ancora. Una pop star esagitata si dimenava strimpellando la chitarra mentre in fondo al video scorrevano i titoli di coda, e le sue atletiche allusioni sessuali apparivano alquanto grottesche: come facevano i fans a trovarle erotiche? Dalgliesh spense lapparecchio e guardò il ritratto a olio del bisnonno materno, il vescovo vittoriano con i paramenti ma senza la mitra, le braccia avvolte dalle amplissime maniche della veste e appoggiate sui braccioli della poltrona. Provò l'impulso di dirgli: "Ecco la musica del 1988, e questi sono i nostri eroi; la costruzione sul promontorio è la nostra architettura e io non oso fermare la macchina per riaccompagnare a casa un gruppo di bambini perché gli è stato giustamente insegnato che uno sconosciuto potrebbe rapirli e violentarli". E avrebbe potuto anche aggiungere: "E là fuori c'è un massacratore che si diverte a strangolare le donne e a riempirgli la bocca di peli". Ma quell'aberrazione era indipendente dal mutare delle mode, e il bisnonno avrebbe trovato una spiegazione scrupolosa e intransigente. Dopotutto, aveva ragione: non era forse stato consacrato vescovo nel 1880, l'anno di Jack lo Squartatore? E con ogni probabilità avrebbe considerato il Fischiatore più comprensibile della pop star, le cui giravolte l'avrebbero sicuramente convinto che fosse in preda alle convulsioni finali del ballo di San Vito.

Rickards arrivò puntuale. Erano le nove esatte quando Dalgliesh sentì la macchina sul selciato. Aprì la porta e, nel buio della notte, scorse l'alta figura avvicinarsi. Non lo incontrava da più di dieci anni, quando era appena stato nominato ispettore dell'anticrimine, e si sorprese nel notare che era cambiato davvero pochissimo. Il tempo, il matrimonio, la lontananza da Londra, persino la promozione, sembravano non aver lasciato segni. La sgraziata figura, alta più di un metro e ottantacinque, strideva con l'abito formale che Rickards era solito indossare. La faccia energica e provata, con quell'espressione di risoluta affidabilità, si sarebbe accompagnata meglio alla divisa di un marinaio del soccorso civile. Di profilo, con il naso lungo e un po' adunco e le arcate sopraccigliari sporgenti, il volto appariva imponente: di fronte, il naso si rivelava troppo largo e appiattito alla base, e gli occhi scuri che in un'espressione vivace si facevano ardenti e quasi maniacali, nella tranquillità diventavano pozzi di perplessa sopportazione. Dalgliesh lo considerava un funzionario di polizia di una specie meno comune di un tempo, ma non ancora estinta: il detective coscienzioso e incorruttibile dall'immaginazione limitata e dall'intelligenza un po' superiore, che non aveva mai pensato che i mali del mondo dovessero essere condannati solo perché spesso inesplicabili e perché i perpetratori erano in fondo gente sfortunata.

Guardò il salotto, lo scaffale zeppo di libri, il fuoco scoppiettante, il ritratto a olio del prelato vittoriano sopra la mensola come se volesse imprimersi ogni particolare nella mente; poi sprofondò nella poltrona e allungò le gambe con un grugnito soddisfatto. Dalgliesh ricordava che Rickards beveva sempre e solo birra e rimase sorpreso dalla sua richiesta di un goccio di whisky dopo un buon caffè. Un'abitudine, almeno, era cambiata. Disse: «Mi dispiace non poterle presentare mia moglie Susie, signor Dalgliesh. Avremo il nostro primo bambino fra un paio di settimane, ed è andata a stare a York con la madre. A mia suocera non andava che restasse nel Norfolk finché c'è il Fischiatore in circolazione, visto che spesso lavoro fino a ore impossibili».

Rickards pronunciò quella frase con una sorta di imbarazzata formalità, quasi il padrone di casa fosse lui, e non Dalgliesh, e si scusasse per l'assenza inaspettata della moglie. Poi aggiunse: «Immagino sia naturale che una figlia unica voglia essere vicina alla madre in un momento simile, soprattutto quando si tratta del primo figlio».

La moglie di Dalgliesh non aveva voluto andare dalla madre: aveva preferito restare con lui, e l'aveva desiderato con tale intensità da fargli in seguito domandare se non si fosse trattato di una premonizione. Rammentava quel particolare anche se aveva ormai quasi dimenticato il suo volto. Il ricordo di lei gli sembrava insopportabile, ed era stato gradualmente sostituito da un romantico sogno di dolcezza e bellezza, ormai fissato per sempre nella sua memoria al di là dell'azione devastatrice del tempo. Ricordava ancora nitidamente il visetto del figlio neonato, e a volte lo rivedeva nei sogni, con quella sua espressione candida e innocente, di saggia contentezza come se, in un breve momento di vita, avesse visto e conosciuto tutto ciò che c'era da conoscere, l'avesse visto e l'avesse rifiutato. Si disse che era l'ultimo uomo al mondo ragionevolmente capace di consigliare o rassicurare un altro sui problemi della gravidanza, e intuì che l'infelicità del collega per l'assenza della moglie doveva essere molto più profonda della nostalgia. S'informò della salute della signora e quindi riparò in cucina a fare il caffè.